martedì 25 settembre 2018

Un dono!

Solo perché uno ha un cancro non è che abbia sempre ragione. Cioè se Salvini avesse un cancro sarebbe pur sempre Salvini. Se Hitler avesse avuto un cancro sarebbe stato pur sempre Hitler. Questo non perché i due siano paragonabili, non me ne voglia Salvini, che pur non apprezzo perché ha sdoganato la peggio Italia dai tempi di Mussolini, ma se avesse un cancro, per dire al cervello, si avrebbe una scusante per tutto quello che dice, ma questo non lo renderebbe degno di plauso. Non per questo non lo si dovrebbe aiutare. Ma dare ragione a uno solo perché ha un tumore al cervello, questo, mai. Io ho un tumore al cervello. Una stella, pensavo un paio d'anni fa. Forse perché altrimenti mi sarei suicidato. Se avessi pensato a che sfiga ti piove addosso di colpo, a te e ai tuoi cari, non avrei mai detto che era "un'opportunità di crescita". Col senno di poi devo ammettere che mi ha aiutato tanto pensarlo, ma la realtà è che è tutto tranne che un'opportunità di crescita. Ti devi adeguare ad una situazione nuova, inaspettata, di grande agitazione e con paura, che ti cambierà la vita (in peggio) all'improvviso. Non puoi vederlo come un "dono". Se lo superi in poco tempo allora sí, senza strascichi, se hai un buon posto di lavoro (la pensione di invalidità civile è arrotondando per eccesso 280 euro...), se puoi continuare a fare le tue cose senza avere particolari fastidi, se la malattia implica "solo" la caduta dei capelli e un po' di nausea una volta al mese, se non perdi la patente, se non perdi l'autonomia, se puoi continuare a lavorare, allora magari puoi, se vuoi puoi crederlo per fartelo andare bene. Ma non puoi crederci veramente. È ovvio, magari sbaglio, ho detto in apertura che non è che se hai un tumore al cervello allora hai sempre ragione. Però puoi parlare per esperienza diretta. Non che quello che dici possa essere come oro colato, magari è dettato da uno stato emotivo particolarmente negativo o positivo, a seconda del momento. Ma non si può nemmeno paragonare tutti i tumori. Nemmeno quelli ad uno stesso organo. Nemmeno quelli nello stesso organo nello stesso punto. Nemmeno quelli nello stesso organo nello stesso punto con un grado di sviluppo uguale. Per cui dire che con il sorriso si possono curare tutti i tumori, me lo consigliavo, tanto incazzarsi cosa serve, il tumore è lì e lì ci starà sempre. Però ogni tanto girano le palle, ci s'incazza con Dio, ci si dice "se non fossi uscito da quella sala operatoria"... ma essere felici vuol dire essere ebeti, idioti, teste di minchia che sorridono nel soffrire, frati che col cilicio se la godono nella sofferenza della carne. Io sono arrabbiato. Arrabbiato nero. Incazzato. Provo una rabbia che non so descrivere. Che non oso descrivere, altrimenti non riuscirei a sopportarla. Con la malattia ci si convive, se ci si riesce, se non si soffre troppo da sperare di morire prima. Con la malattia ci si scommette, per puro gusto personale, utopisticamente, che vincerai dipende non dai tuoi sorrisi, ma dalla malattia stessa, dalle cure che ti somministrano, se sei fortunato in qualche anno te la cavi (e allora sì che è un'opportunità di crescita), ma se ti dicono che ci dovrai convivere tutta la vita non ne sei felice, te lo fai andare, e ti girano anche le balle.
Alba. 25 settembre 2018.

mercoledì 25 ottobre 2017

TUTTO IN UN UNICO POST


Quando mi hanno scoperto il mio Astrocitoma non ho potuto fare a meno di, dopo aver stretto forte la mano a quella che di lì a poco sarebbe diventata mia moglie, aver versato con lei un litro abbondante di lacrime, pensare: però, che bel nome gli hanno dato a questo fottuto tumore...

Ho una stella nel cervello...

E questa è la storia di come sto sopravvivendo, tra alti e bassi, a questa "stella nel cervello".




Introduzione



Il 29 aprile 2016, venerdì, a seguito di una crisi epilettica con convulsioni e perdita di coscienza, vengo ricoverato al reparto di neurologia di Alba (CN). Lunedì, dopo una serie di accertamenti ci viene detto che ho un tumore al cervello, e che andrebbe operato il prima possibile.

Queste righe sono state cominciate tre mesi dopo la diagnosi, per poi essere riaggiornate di volta in volta a seconda degli eventi e delle novità. E questo blog è iniziato dopo esattamente un anno dall'accaduto, spinto da Rossella. Deve essere inteso come una sorta di diario, del mio caso specifico. Un'astrocitoma di secondo grado diffuso situato nel lobo frontale sinistro, con un indice di proliferazione all’8%. Che a me sembra sinceramente una supercazzola, ma di quelle serie date le mie conoscenze scientifiche. "Chi meno sa meglio sta" dice il proverbio. E io ho sempre voluto non sapere, vivere la MIA vita come prima, anche se impossibile, incavolandomi quando non mi riusciva una cosa, semplicemente dando la colpa al tumore, dandomi degli obbiettivi che mi sembrassero "realizzabili", e festeggiandoli sempre. 

Non avrebbe senso leggere queste righe come un “manuale di sopravvivenza semiserio ad un tumore cerebrale”, o altre cose di questo tipo. Ogni caso è a sé, e questo è il MIO. Raccontarlo mi ha aiutato ad elaborare le cose che ho vissuto. Leggerle e correggerle, cambiare il tiro, il ritmo, mi ha insegnato a scriverle, in un continuo evolvere dello stile. Non sono uno scrittore, nemmeno uno che ha da insegnare delle cose. Voglio raccontarvi quello che mi è successo. E basta.

I nomi dei medici che mi hanno seguito sono stati modificati, così da proteggerne l’anonimato.



Simone Prando








A Giulia e Fabrizio.

A Giulia perché Lei sa il “perché”.

    A Fabrizio perché ho scoperto in lui un Amico. Un fratello ti "capita", con un amico ci si sceglie.







Alla mia famiglia.

Che ha saputo supportarmi e sopportarmi con pazienza in ogni momento.







Agli amici.



Che mai mi hanno dato anche solo il sospetto di compatirmi, se non in senso greco, e hanno saputo tessere quella rete che mi ha sorretto nei momenti più difficili ma anche in quelli più divertenti.







Alle tante storie incontrate su questo percorso.



Ai tanti guerrieri che ogni giorno combattono per la loro stella.

Ognuno di voi mi ha lasciato qualcosa.

Spero di aver fatto altrettanto.







(“Il Vergine”, Jerzy Skolimowski)






Sera di febbraio.



Spunta la luna.

Nel viale è ancora

giorno, una sera che rapida cala.

Indifferente gioventù s’allaccia;

sbanda a povere méte.

Ed è il pensiero

della morte che, in fine, aiuta a vivere.



(Umberto Saba)




Antefatto.



Il 22 aprile 2016 sono tornato da Firenze, dove ho suonato in una produzione dell’Orchestra Regionale Toscana. Sarebbe stata la mia ultima produzione lì prima del matrimonio con Giulia, in un clima festoso, fatto di cene, aperitivi, birre, con i colleghi e amici.  

Io suono il contrabbasso, faccio il musicista di professione, ho collaborato con diverse realtà orchestrali italiane (tra cui l’Accademia di Santa Cecilia a Roma) e gruppi barocchi. Poi giro il mondo con quello che è il progetto più intenso e più vivo con cui collaboro: Soqquadro Italiano, un ensemble in bilico tra la musica antica e moderna.

Quindi, il 22 sono tornato da Firenze, alla stazione c’era Giulia ad aspettarmi, la mia futura moglie, ci saremmo dovuti sposare dopo meno di un mese, il 21 maggio…

Il giorno dopo siamo andati a farci le fedi, a Milano. Si a farcele noi. C’è una cooperativa di orafi che mette a disposizione il laboratorio e la consulenza di un esperto per fare le proprie fedi. Dalla fusione dell’oro all’anello finito. E in più reinveste i soldi che guadagna in progetti di reinserimento di malati psichiatrici nel mondo del lavoro.

Io ero un po’ scettico all’inizio, ma poi mi sono lasciato tanto coinvolgere dall’esperienza che alla fine della giornata ho ringraziato Giulia per aver insistito tanto. Abbiamo fuso l’oro delle due famiglie, abbiamo martellato, tagliato, lisciato, saldato, lucidato, fino a quando non abbiamo visto prendere forma e rifinito le Nostre Fedi, nostre ancor di più perché le avevamo fatte proprio noi.

Il 28 aprile, giovedì, siamo andati ad Alba, il giorno dopo Giulia sarebbe andata a Torino a provarsi l’abito. Io invece stavo a casa dei miei futuri suoceri a studiare. Avrei avuto una produzione all’orchestra Leonore a Pistoia che iniziava lunedì, poi una con la Camerata di Prato dal lunedì successivo. Poi sabato 21 maggio ci sarebbe stato il giorno più importante delle nostre vite.

Tutto era calcolato al dettaglio. Tutto meticolosamente in bilico tra gli impegni. Tutto chiaro e definito. Poi… 








La maggior parte dei mortali, Paolino, si lamenta della natura, della sua cattiveria.

Si vive per un breve periodo, e questo spazio di tempo dato a noi trascorre così velocemente e così in fretta che, tranne per pochissimi, gli altri abbandonano la vita nella stessa preparazione alla vita.

(Seneca, dal “De brevitate vitae”)




La crisi



Il 29 aprile mentre Giulia si provava l’abito da sposa a Torino io ero a casa dei miei futuri suoceri a studiare. Nel pomeriggio dopo aver mangiato mi sono sdraiato sul divano a vedere la partitura (“Morte e Trasfigurazione”, di Richard Strauss), e dopo un po’ ho sentito un crampo sotto il piede destro. Non mi sono allarmato, sono solito avendo i piedi piatti a questo genere di cose, ma poi, subito ho capito che c’era qualcosa di diverso, la gamba destra ha cominciato a tremarmi, il braccio (sempre il destro) si è alzato, avevo il fiato corto, e mi si piegava il collo con convulsioni verso il braccio. Ho visto poi il braccio che sventagliava, in una sorta di confusione generale ho temuto avessi un infarto, e ho pensato a fare “la stecca” con la mano. Sapete quel gesto che si fa tenendo medio e pollice uniti e facendo colpire all’indice il medio? Bene, mentre mi succedeva questa cosa io ho pensato a questo. Forse per testare il controllo del corpo. Non lo so. Ma io volevo fare “la stecca” quando ho avuto la mia prima crisi epilettica.

Poi ho perso conoscenza, non so per quanto. Mi sono risvegliato sul divano, mi ero pisciato addosso. Ero tutto dolorante, e spaventato, e confuso. Cosa mi era successo? Avevo la lingua e le guance gonfie. Sono salito al piano di sopra, mi sono cambiato, ho chiamato Giulia (che, lo ripeto, era a provarsi l’abito da sposa…). Aveva il cellulare spento. Ho chiamato sua sorella. Non mi ha risposto. Ho chiamato sua mamma (voi direte perché non chiamare un’ambulanza? Semplice, non so l’indirizzo di casa dei genitori di Giulia, abitando in collina ad Alba non me ne sono mai preoccupato…), che mi ha risposto, e mi ha passato Giulia. Ho in qualche modo spiegato quel che mi era successo, lei mi ha detto che avrebbe chiamato sua zia e che mi avrebbe portato al pronto soccorso, di stare tranquillo. Mi sono steso sul letto, dopo un po’ è arrivata Antonella, la zia di Giulia, e in dieci minuti eravamo al pronto soccorso.

Ho spiegato in qualche modo (ero confuso, stupito, spaventato…) al triage quello che mi era successo, mi hanno messo su una barella, e lì ho avuto la mia seconda crisi epilettica. Appena in tempo per essere sedato con del valium, e tenuto tre giorni sotto Tavor. Tre giorni in stato crepuscolare, di cui non ricordo nulla, se non che provavo a vedere un film con mio padre, un film con Tognazzi e Dorelli, che mi hanno fatto una TAC, una risonanza magnetica, che mio fratello è sceso con Elia, un grande amico di tutti e due, non ricordo altro. Nemmeno della paura di Giulia, dei miei, di mio fratello. Solo che dovevo scrivere a Daniele Rosi, mio collega e amico, che non avrei potuto esserci alla "Leonore" a Pistoia. E in seguito lui mi disse di aver ricevuto due o tre volte lo stesso genere di messaggio. Segno che ero per davvero di fuori…

Lunedì 2 maggio, il dottor Tatoni mi chiama nel suo studio, chiedo che venga anche Giulia, la voglio di fianco qualsiasi cosa abbia da dirmi. “Signor Prando, dagli esami fatti risulta che lei ha un tumore al cervello, un glioma…”. Il fumetto perfetto per quello che è stato il nostro pensiero in quel momento sarebbe “GULP”, ma chiesi solo “qual è la cosa peggiore che mi può capitare…?”, “Signor Prando, lei lo sa in medicina qual è la cosa peggiore che può capitare…”.

E così, tutti i progetti, tutta la chiarezza e meticolosità degli impegni, l’equilibrio trovato fino ad allora passò in secondo piano. Lasciò spazio alla sensazione di paura, di smarrimento, di incognita. Cosa dovevamo fare? Il dottor Tatoni ci aveva subito ispirato fiducia, con i suoi modi gentili ma allo stesso modo diretti. Gli ho chiesto quale sarebbe stato il percorso da seguire, lui ci ha detto che andava operato, il prima possibile. Che era situato in una posizione che poteva lasciare dei segni soprattutto alla gamba (tutt'ora a un anno di distanza la caviglia non si muove ancora...), e in prossimità dell’area di Broca, deputata al linguaggio, ma non abbastanza da dare preoccupazioni, ma che solo con una risonanza magnetica funzionale su un macchinario da tre tesla (a Torino, mentre ad Alba avevano solo la risonanza da un tesla e mezzo) si sarebbe potuto vedere qualcosa con più certezza. Che andavano fatti ulteriori accertamenti e che ci si sarebbe dovuti affidare al reparto di neuro-oncologia di Torino, o dove ritenessimo più opportuno noi. Io ho chiesto mi venisse data una terapia anti depressiva e ansiolitica, sapevo quanto fosse importante in questi casi l’umore. “Bombatemi di antidepressivi…”. Dissi proprio così.

Successe tutto così in fretta che non so descrivere altro. E i tre giorni prima li ho passati sotto Tavor, un po’ presente un po’ no. Li ho vissuti “di sponda” dai racconti di Giulia e dei miei. Come quando durante un’erezione  (il pene che diventa duro, per i non pratici...) volevo fare vedere tutto all’infermiera di turno, con mio padre che pensava tenessi una bottiglietta d’acqua sotto le lenzuola e Giulia imbarazzatissima che continuava a tirarmi su le lenzuola per coprirmi e io le tiravo di nuovo giù, insistendo: “be ne avrà già visti…”

Quel che mi fa ridere di tutta questa storia è che solo mercoledì 27 aprile avevo detto a John, un amico conosciuto da poco a Padova, per scherzo ovviamente, che io ero uno di quelli che preferisce non andare a fare tanti controlli per non sapere se ho delle cose che non vanno, che se non le sai non te ne preoccupi. Questo tumore chissà da quanto era li. Mi avrà sentito? Si sarà voluto far sentire, due giorni dopo, per mettermi in guardia da che crescesse troppo? Era un tumore che potrebbe aver condiviso con me i momenti più significativi della mia vita: la nascita di mio fratello, la morte dei miei nonni, il mio primo bacio, l’incontro con Giulia, la mia maturità, l’università. Non si può sapere da quanto fosse li. Ma quel che ci interessava era sbarazzarsene al più presto.

Ricevuta la secchiata fredda, dopo un primo momento di sconforto e paura, abbiamo subito reagito in maniera costruttiva. Tanto non sarebbe servito a nulla lamentarsi, ovvia la paura, naturale direi, quando associ le parole “tumore” e “cervello” penso ci sia un’area dell’amigdala che cominci ad agitarsi e preda di se stessa vada nel “mazzo”, come si suol dire. Però c’era da ben sperare secondo il dottor Tatoni. Ed avevamo deciso di fidarci e affidarci a lui. In questi casi penso che la fiducia nei confronti di chi ti segue sia tutto. D’altra parte se hanno studiato 10 anni e più per quel campo, se sono riusciti ad avere quel posto, non sempre sono degli incompetenti o dei baroni, molto spesso invece è gente preparata che sa il fatto suo. E il consiglio che mi sento di dare è di non accendere internet fino a quando non si è finita questa lunga battaglia, e non cercare nulla che non sia alla portata di quello che si sia studiato, perché altrimenti si aumenta la confusione che in questo momento è l’ultima delle cose che serve. In questo momento bisogna avere i piedi ben piantati per terra, sapere che si ha di fianco dei professionisti, che se ti dicono una cosa vuol dire che è quella che va fatta, affidarsi ad un grosso ospedale che ne vede tutti i giorni di casi simili (maggiore il numero di casi, maggiore l’esperienza che si acquisisce). E poi lasciarsi andare e cominciare a vivere la situazione come un’occasione di crescita personale. Uno degli eventi più importanti della tua vita. L’incontro con la morte, che a me è successo a 31 anni, e che mi sta aiutando a vivere.

Si diceva, in questa che è la cronistoria emotiva del mio tumore al cervello, che dopo questa secchiata fredda abbiamo subito reagito, su tre fronti. Primo fronte, la visita a Torino all’ospedale Molinette, su consiglio del dottor Tatoni. Secondo fronte, un consulto privato dal dottor Modena, neurochirurgo, ex primario a Cuneo ora a Bergamo, che visitava ad Alba ed era in contatto con il mio futuro suocero. Terzo fronte, il migliore di tutti, anticipare la data del matrimonio già previsto.

Così il 5 maggio, giovedì, sono andato a Torino, accompagnato da mio fratello Fabrizio che mi ha seguito sulla macchina della croce rossa, e la mia famiglia, con Giulia, dietro, in visita dalla dottoressa Ferrari, e con lei c’era schierato l’intero gruppo interdisciplinare cure, il G.I.C., ossia la professoressa, i neurochirurghi, i radiologi, e gli studenti. Ci hanno chiesto se fosse possibile che questi ultimi assistessero alla visita, io penso che sarebbe stato stupido rispondere no, che servono dei buoni medici, e solo facendo così si possano formare, quindi nessun problema. Fissiamo una risonanza magnetica funzionale, ovvero una risonanza magnetica facendo dei compiti, come muovere le dita, parlare, per vedere quali aree del cervello si attivano, e mi parlano della possibilità di essere operato da sveglio. Io sono dentro con Giulia, che sarà presto mia moglie. Decido di affrontare l’intero percorso solo con lei, non sto tagliando fuori la mia o la sua famiglia, ma per evitare confusione o ansie cerco solo la sua presenza. Ha le spalle per farlo. Mi fido di lei. È tosta. Penso che senza di lei tutto questo sarebbe stato molto difficile da affrontare. E anche la decisione di sposarci lo stesso, nonostante tutto, e farlo diventare un “perché” tutto questo, sia stato una delle cose migliori che abbiamo deciso di fare e ci ha aiutati molto in quei momenti di sconforto, che ovviamente ogni tanto saltavano fuori. E guarda caso è stata proprio lei a chiedermelo, su quel letto d'ospedale ad Alba. Io l'avevo fatto ben due volte, la prima quando era a Bratislava, poi mi sono cagato addosso, poi a Padova, e doveva essere il 21 maggio 2016. Invece è stato 11 giorni prima, all'osteria Italia, da Renato... Ma questa è un'altra storia che vedremo poi. 

Così ce ne torniamo da Torino convinti di farmi operare lì. Il giorno dopo vedo il dottor Modena, che ci seguirà “dalla distanza” per tutto il mio percorso, dimostrandosi una persona disponibile e professionalmente preparata, che si è interessata a quale sarebbe stata l’equipe medica che mi avrebbe operato a Torino e consigliandocela. Non ci ha mai messo il tarlo del dubbio, e questo ci ha aiutati molto, perché, in questi casi, come dicevo anche in precedenza, se non ti riesci ad affidare a delle mani (ovviamente esperte e dopo aver fatto le dovute considerazioni) e non ti abbandoni a loro difficilmente affronti in maniera serena un’operazione del genere. Oh, ti aprono il cranio, con un trapano fanno due buchi poi con una sega circolare fanno un taglio a ferro di cavallo di 15 cm per 10 cm ai due lati paralleli, poi con un divaricatore ti aprono quello che è una sorta di sportello come quello di un bagagliaio, e ti infilano le mani dentro al cervello. Se non ti riesci a fidare sei spacciato.









Così ci salutiamo nell’attesa di ricevere una telefonata da Torino che ci avrebbe informato della data di questa risonanza magnetica funzionale. Nel frattempo i preparativi del matrimonio, che abbiamo celebrato in comune ad Alba il 10 maggio, esattamente il quarto giorno dopo la mia dimissione dall’ospedale di Alba, in forma ridotta, una trentina di invitati, ed è stato il giorno più bello della mia vita. Ovviamente speriamo di rifare la festa come ce l’eravamo immaginata, più avanti, quando tutto sarà finito, e per scaramanzia abbiamo deciso di non metterci gli abiti che avevamo preparato (anche perché il mio  era a Padova e quello di Giulia a Torino non finito) e di sposarci così, alla bell’è meglio. Eravamo comunque bellissimi… C’è stata musica (Gino, Marco e Fabrizio hanno suonato fino allo sfinimento e non li ringrazierò mai abbastanza), risate, c’erano Gabriele, Claudia e la bella Gloria, c’erano Meme e Laura, Christian e Roberta, Silvia, poi c’erano i parenti più stretti, e per un giorno intero non si è pensato a quel bastardo che avevo in testa. Non c’è stato spazio per lui.

  





Solo per la felicità. Durante i giorni successivi siamo stati letteralmente invasi dagli amici: Daniele, Martino, Meme, Laura, Gabriele, Elia, Victor, Ester, Davide, Laura, Paolo, Riccardo, Dario… e quelli che non sono riusciti a venire a trovarci ci tampinavano via telefono, messaggi…  diciamo la verità, non ci siamo stufati per niente!




Poi abbiamo telefonato noi a Torino, perché l’attesa era snervante e ogni suono di telefono era ansia allo stato puro. E ci hanno fissato la data. Il 20 maggio. In realtà quando andammo il 20 maggio per questa risonanza scoprimmo che era stata fissata l’11, e che non ci avevano avvisato. La cosa ci ha fatto arrabbiare non poco, ma in un grande ospedale può succedere che un anello manchi al suo dovere. Ma è ingiusto nei confronti del paziente, e andrebbe per lo meno chiarita la situazione chiedendo scusa. Ma tant’è. Dall’11 al 20 sono nove giorni d’attesa in più, in cui ti passano per la testa mille cose. Oltre al tumore. In cui ti ripeti che la puoi vivere come un’opportunità, e non come una maledizione. E poi hai gli amici che non ti mollano un secondo, e io devo dirlo proprio ho avuto forse i più bei giorni della mia vita in questi nove giorni. E non ho avuto tempo di preoccuparmi. In realtà l’ansia per questa telefonata che doveva arrivare, per l’operazione, per il decorso postoperatorio, c’era, ma non trovava spazio se non in pochi momenti della giornata: quando raccontavo quello che avevo avuto e quali i rischi conseguenti l’operazione. Ma l’ho raccontato talmente tante volte, ogni amico mi telefonava e mi chiedeva, e poi ai tanti che sono venuti a trovarmi, che penso di aver elaborato la paura e l’ansia come in una terapia psicoanalitica. E alla fine mi sono convinto davvero di quell’opportunità che mi stava dando questo tumore.

Il 20 ho la risonanza magnetica funzionale. Decidono di non farmi fare le prove verbali. E di operarmi in anestesia totale.

Il 24 vengo ricoverato alle Molinette di Torino. Entro alle 15.30. L’operazione è fissata per il 26. Il 26 maggio 2016. 28 giorni dopo la crisi epilettica che ci ha fatto entrare in contatto con il tumore. Che ce l’ha fatto conoscere.







The Brain — is wider than the Sky —

For — put them side by side —

The one the other will contain

With ease — and You — beside —



The Brain is deeper than the sea —

For — hold them — Blue to Blue —

The one the other will absorb —

As Sponges — Buckets — do —



The Brain is just the weight of God —

For — Heft them — Pound for Pound —

And they will differ — if they do —

As Syllable from Sound—



(Emily Dickinson)




L'operazione e Torino. Parte prima.



Il 24 maggio 2016 vengo ricoverato all’ospedale Molinette di Torino. Sono in stanza con un ex alcolista che continua a chiedermi per cosa sono ricoverato e continua a dirmi di essere arrivato la sera prima. Non mi esaspera, quando gli dico che sono lì perché mi hanno trovato un tumore al cervello (e glielo ripeterò decine di volte) sembra fare degli sforzi per trovare qualcosa di opportuno da dire o da fare. Dopo l’operazione verrà più volte al mio letto, dove sono bloccato, letteralmente, e mi guarda con occhi tristi e mi rincuora. Per poi tornare a letto, addormentarsi, e chiedermi un’altra volta per cosa fossi lì e cosa avessi combinato.

Ma torniamo al 24 maggio. Arriviamo in ospedale attorno alle 15.30 e lasciamo correre le ore che ci separano dalla sera. La notte passa serenamente tra i vari campanelli d’allarme, le infermiere che accorrono tranquillamente, i rumori di un ospedale che respira, le richieste dei pazienti, la luce che entra dalle vecchie tapparelle dei grandi finestroni, il caldo…

25 maggio. Conosco l’anestesista, un tipo che mi piace e con cui perdo almeno un’ora parlando della musica russa. Attraverso una mia amica, Valentina, dottoressa a Torino che era venuta a trovarmi la sera prima conosco uno dei dottori che sarà nell’equipe che mi opererà il giorno dopo. È rassicurante sapere di essere in buone mani, e lui ci assicura che quelle dove sono io sono le migliori che mi potrebbero capitare. Anche Giulia si tranquillizza dopo questo incontro, dove ci viene spiegato tra coetanei in modo informale in cosa consisterà l’operazione. Vengo poi istruito sul bisogno di una doccia completa prima dell’operazione, o la sera, o ancora meglio al mattino. La sera incontro il dottor Mercatali, il neurochirurgo che assieme al dottor Rossi mi opererà. Mi racconta in cosa consisterà l’operazione, mi chiede se ho domande da fargli. È un tipo simpatico, ispira fiducia, è giovane, sembra freddo ma appassionato al punto giusto. Decido di fidarmi di lui. Non ho alternative d’altra parte.

La notte prima dell’operazione la passo da solo. Tra mille pensieri e nessun pensiero in particolare. Cerco di dormire ma ogni ora mi sveglio e guardo l’orologio. Quando alla fine prendo sonno vengo svegliato da un’infermiera per la doccia. Alle 6. Faccio la doccia, cercando di rilassarmi, di godermela. Metto il camice. Alle 7.30 mi portano a fare una TAC. Alle 8.45 entro in sala operatoria. Tutto questo accompagnato da mio padre e da Giulia. Ora, bisogna che descriva questa “entrata”, perché se uno non l’ha mai vista, o non sa come sia fatta, non riesce ad immaginarsela. Con le infermiere percorro chilometri di corridoi in quello che mi sembra un sogno lucido. Vengo poi messo su un lettino rigido davanti ad una vetrina, dove all’interno ci sono due altre infermiere. La vetrina poi si apre, esce un gran freddo, e vengo trascinato all’interno, dove vengo addormentato, e poi, sparisco dal mondo. Ora con mio padre più volte si è parlato della morte, e abbiamo convenuto che non è niente di diverso da un’anestesia. Senza il risveglio. È rassicurante convincersi di questo, perché in una situazione come la mia avrebbe potuto significare andarsene dal mondo pronti, sereni, e se si avesse ancora qualcosa da fare lo farà qualcun altro. Sotto sotto so che mio padre non la pensa così, e nemmeno io. Mi sono trovato a pregare la sera prima dell’operazione, quando si ha paura ci si attacca a tutto, se non altro per un calcolo probabilistico dove conviene credere al non credere che non ci sia nulla dopo. Perché se credendo e comportandosi di conseguenza non ci fosse nulla se non altro si avrà vissuto per bene, e se ci fosse qualcosa si andrà in quello che per la nostra società è il paradiso. Non credendo dopo la morte bene che vada non ci sarà nulla, però ci fosse qualcosa si finisce all’inferno. Per cui conviene credere, almeno in questi frangenti, ci sia qualcosa dopo… Se non altro non pensarci proprio per nulla. E aspettarsi tutto. Anche il nulla. Andai così a quell’operazione. Vuoto. Svuotato di tutto: paure, ansie, felicità, attese; l’unica cosa che mi sarebbe dispiaciuto non risvegliandomi era di dare dispiacere ai miei, a mia moglie, a mio fratello. Ma cosa potevo farci io? Sapevo di aver vissuto bene, di aver fatto tutto il possibile per avere una vita piena, soddisfacente, avevo vissuto tutti i giorni come se fossero speciali, doni, gli ultimi o i primi. Avevamo una vita speciale, dove il “carpe diem” era la norma. Quindi, vada come vada, affrontiamo questa cosa! Un ultimo saluto a Giulia e a mio padre, e via.

Quando mi risveglio scoppio in una risata, di felicità, tanto che contagio l’infermiera che è lì e il dottor Rossi, che viene e mi dice che verrà a trovarmi, che di solito tutti quanti quando si svegliano hanno una faccia cadaverica e sono musoni, e che sono il primo che vede ridere, io provo a dire grazie, dopo un po’ ce la faccio, ma non è facile. E lo ripeto più volte. Esco che sono le 15,30. E trovo in sala d’aspetto Giulia, mio padre e mio fratello. Mia madre la trovo subito dopo. Prima sono usciti l’amico di Valentina, che ha anticipato la buona riuscita dell’operazione, e poi il dottor Rossi, che conferma. Mi portano a fare una TAC, sono ancora sotto l’effetto dell’anestesia, mi sto risvegliando ma tutto è confuso. Alle 16.30 sono in camera, con una canula di drenaggio che mi esce dalla testa. Alle 19.30 resto solo con mio padre, Giulia va da una sua amica che l’accoglie per tutta la settimana. Alle 22.30 ricevo la visita dei medici: “ok, va bene, parla (anche se io non faccio che ripetere le ultime cose sentite, se semplici), non muove gamba e braccio (destri), ma riprenderà!”.

Mio padre passa le prime tre notti in ospedale con me. Ma è agitato, ansioso, passa il tempo a controllare la flebo, ogni movimento che faccio mi chiede se abbia bisogno, e io non riesco a parlare. Sono afasico. È terribile avere qualcosa da dire e non riuscirci. Faticare per trovare due parole che vadano bene magari delle ore. Non lo voglio più lì, ma non riesco a dirglielo. La mattina Giulia mi trova agitato, e praticamente muto. Riesco solo a dire “va via” a mio padre, “ciao” a Giulia, “acqua”, “pisciare”, e poche altre cose. In più la spalla del braccio ipotonico mi fa male. È la spalla che avevo lussata da piccolo e che ogni tanto mi usciva. Mi fanno vedere dall’ortopedico, che ordina una radiografia (fatta in qualche modo poiché alle Molinette non sono attrezzati per le radiografie alla spalla da sdraiati…) e poi mi caricano su un’ambulanza e mi portano presso l’altro ospedale di Torino, il C.T.O., per un’altra radiografia ed eventualmente il riposizionamento della spalla. Ci mancava questa. Mi accompagna Giulia. Mi tengono un tempo incalcolabile in attesa, mi chiedono dei movimenti assurdi con il braccio bloccato che cerco di fare perché non posso spiegare perché afasico, che sono appena stato operato al cervello e sono rimasto emiplegico, e che è inutile chiedermi di alzare il braccio o aggrapparmi ad una sbarra tanto non posso farlo. Invece lo faccio in qualche modo e sento la spalla rientrarmi. Non provo nemmeno a spiegarlo e gli lascio fare la radiografia. Diagnosi: la spalla non è lussata.

Vengo riportato alle Molinette. Giulia è agitata come lo sono anche i miei perché non erano stati avvisati del rischio che rimanessi afasico. Ma questa vicinanza del tumore all’area di Broca sapevo che avrebbe potuto dare questo disturbo. Poi se fosse stato passeggero, o cronico, non lo sapevo nemmeno io. Ero sicuro, perché un inguaribile ottimista, che sarebbe stato passeggero. E quindi non mi preoccupava. Giulia allora chiede alla dottoressa, di cui non farò il nome perché non avrò altro che parole brutte per lei, informazioni su questo fatto. Lei non fece altro che sospirare, e rispondere: “per ora è così, vediamo se migliorerà…”. Giulia telefona a Laura disperata. Laura è una nostra amica logopedista di Padova. La nostra prima amica di là. La rincuora e le dice di non preoccuparsi che per avere una diagnosi bisogna almeno aspettare un mese e che da un giorno con l’altro possono esserci delle differenze anche notevoli. Poi le dice che sentirà una collega che si occupa proprio di afasie. Non ci fosse stata lei sarebbe andata nel panico. Porco cane era così difficile? Allora: vale la pena aprire una parentesi sul reparto di neurologia di Torino. Uno dei più squallidi reparti di degenza, dove i bagni sono uno ogni 3/4  camere, con finestre che non si chiudono, caldi che si soffoca in estate, sporchi, dove non si ha la cura per il paziente se non nel caso specifico che trovi degli infermieri con un po’ di empatia, dove ci sono specializzandi che si atteggiano a gran dottori (e di fronte ad una coprolalia, ossia la tendenza in pazienti afasici di usare parolacce, se ne vanno offesi), dove manca la più minima organizzazione in termini di orari delle visite (nel mio caso si presentavano questi dottori di colpo e mi chiedevano di parlare, di muovere il braccio, la gamba, e constatavano una ipertonia nella gamba, data evidentemente dall’ansia di trovarmi lì a dover compiere un ordine di fronte a tante persone, magari appena svegliato da un sonno pomeridiano, o di fronte a ordini del tipo elencare tutti i fiori che mi venivano in mente, e a me usciva solo un “vaffanculo” ben detto sentirmi dire “non deve dire le parolacce signor Prando”), dove ti mettono ansia studenti che hanno visto troppe puntate di E.R. e ti mettono il tarlo del dubbio se quel formicolio sia una crisi epilettica che stia sopraggiungendo, e così via. Comunque la cosa più fastidiosa per quanto mi riguarda è la mancanza di orari certi, se tu sai che il giro dei dottori è più o meno sempre a quell’ora ti prepari. Non ti addormenti qualche minuto prima. E poi la presenza di stupidità, ignoranza, arroganza e mancanza di empatia. Devo dire che ho trovato molto più empatici e “furbi” alcuni infermieri che la dottoressa che seguiva il piano. Che mi chiedo ancora come abbia fatto ad avere quel posto, dato che non è nemmeno una bella donna da poter supporre qualche faccenda erotica…




Figa Pelosa



La seconda notte dopo l’operazione si ferma ancora mio padre. Stessa storia della notte prima. Ansia per la flebo, per il pappagallo, e io incapace se non di dire qualche “vaffanculo”, qualche “va a cagare”, “va via”, e lui che non capisce e che mi sorride pensando che scherzi. La mattina chiedo di Giulia e mi dice che è fuori dal reparto. Non gli credo, penso mi stiano trattando come un poverino, come un bambino, come uno che non capisca, e la cosa mi fa infuriare, perché cognitivamente ci sono, capisco tutte le cose, continuo a dire che non mi si debba parlare più lentamente, o più scandito, ad alto volume, che capisco tutto, e che è un problema di afasia, che “è il normale decorso del trauma postoperatorio” (questa me l’ero preparata in una notte, assieme all’altra frase che ripetevo a Giulia: “il più bel giorno della mia vita fu quando mi sposai”). Lui che non sapeva cosa fosse l’afasia (in produzione) mi guardava sorridendo e spezzando i biscotti nel caffelatte dicendomi che quando avessi finito sarebbe uscito e avrebbe chiamato Giulia. Non gli credevo, allora ho mangiato in fretta e gli ho detto che se ne andasse e facesse entrare Giulia. Non c’era. Come sospettavo mi stava prendendo in giro. Magari in buonafede, credendo di fare il mio bene. Ma mi stava prendendo in giro in un momento che non mi andava di essere preso in giro. Sono agitato.

La notte dopo la passo ancora con mio padre. Un’infermiera capisce la situazione e gli chiede di lasciarmi da solo che ho bisogno di tranquillità. Il giorno dopo riesco a mettere assieme la frase “non voglio qui i miei genitori, non perché non gli voglia bene, ma perché non sanno gestire la situazione”. Giulia glielo dice a pranzo. Con grande pena. Ma mio padre capisce e accetta la mia richiesta. Da questo momento si fermerà mio fratello a fare le notti. Grande persona. Mio fratello che ho visto nascere, avendo 8 anni meno di me, e che valuto una delle persone più importanti nella mia vita.

In un momento che rimango solo con una delle dottoresse del reparto le prendo la mano, e sforzandomi per chiederle qualcosa, o semplicemente per ringraziare (ringraziavo continuamente tutti...), insomma per dirle una cosa che non ricordo nemmeno più, mi viene in mente “figa pelosa”. Non posso non dirlo, perché quelle due parole sono troppo attraenti, escono fluide, e so che se lo dicessi farei una figura di merda ma poi si sbloccherebbe quello che vorrei dire. Le dico. Eccole, signore e signori, un bel “FIGA PELOSA” alla dottoressa, che pur conoscendo la problematica della coprolalia non accenna nemmeno ad un sorriso e se ne va via sospettando probabilmente del come abbia saputo che si fosse dimenticata di depilarsi proprio quel fine settimana. Quando arriva Giulia in qualche modo gli racconto la cosa e scoppiamo a ridere per almeno una mezz’ora. E siamo così a lunedì 30 maggio.

Il 30 viene la fisioterapista dell’ospedale, per una valutazione. Gamba ipertonica e braccio ipotonico. Non viene invece la logopedista. Io vado un po’ meglio con la parola, ho cominciato a fare dei cruciverba con mia mamma, lei mi dice le definizioni e io cerco le parole. È uno sforzo immenso, ma sento che farà bene. Ridiamo tanto, quando non mi viene una parola gliene dico un’altra che invento di ugual numero di lettere e le incasino lo schema. Le ho raccontato la storia della “figa pelosa” e quando vede la dottoressa a cui gliel’ho detto non può trattenersi dal ridere. Dico che va un po’ meglio con la parola ma non è che riesca proprio a fare dei discorsi. Sembro più un robot con una ventina di parole nel suo lessico, prosodia assente (intonazione), piatto. Tendo a ripetere l'ultimo suono che sento (Infermiera: maccheroni alla Cavour con cipolle di Tropea e molluschi della Papuania o brodino? Io: brodino...Dottoressa: Le fa male qui, si o no?Io: NO. Stessa domanda con invertite le risposte da si o no in no o si. Io: SI). Con i cruciverba riacquisto un po’ di lessico, per recuperare buona parte delle parole invece devo aspettare di ricominciare a leggere. Anche se Giulia inizia a leggermi dei racconti di Tabucchi (“Sogni di sogni”, regalatomi da Luisa) e io comincio ad immagazzinare di nuovo nel mio lessico qualche parola il ripescarla ha le sue difficoltà. Faccio una TAC e un Elettro Encefalo Gramma. La TAC evidenzia un edema piuttosto grande, mi bombano di cortisone, che mi fa venire una fame della Madonna. Perché quello che non ti dice nessuno è che con il cortisone ti viene fame. Ma ti danno la stessa quantità di cibo del tuo vicino di letto che non ha una terapia che preveda il cortisone. E lui magari avanza roba nel piatto e tu vorresti mangiarla ma non ti osi. O ti fa schifo. O tutte e due le cose. E accetti di rimanere con la fame. E mangeresti le braccia di chi ti viene a trovare.  







Calachina University



Il 31 facciamo domanda per Rodello. La clinica riabilitativa “la Residenza” è un punto di riferimento in Piemonte, è “a conduzione ecclesiastica” ma convenzionata con la mutua. È il posto giusto per la mia riabilitazione. Poi inaspettatamente, come per tutti gli appuntamenti delle Molinette, arriva la fisioterapista per la prima seduta. Fa vedere a Giulia e Fabrizio degli esercizi da farmi fare durante la giornata. Mi mette su una sedia a rotelle. E comincio a girare e farmi portare in giro da Fabrizio, Giulia, mia mamma. 

Il primo giugno mi metto in piedi su un trespolo dove posso reggermi. È una gioia.






Faccio fisioterapia in piedi. È una gioia. Giulia sente il dottor Tatoni e si mette d’accordo per farmi spostare all’ospedale di Alba venerdì. Per me è una gioia saperlo. Nel pomeriggio arrivano a trovarmi Giovanna e più tardi Laura e Camilla, che è ancora nella sua pancia. È la prima visita extra familiare che ricevo, e mi commuovo. La sera conosco Renato che mi porta dell’origano da aggiungere alla mozzarella. Insomma… tutto al meglio.

Il 2 giugno la parola va meglio. Fisioterapia fai da te con mio fratello e Giulia. Riammetto mio padre, che sembra aver apprezzato la mia sincerità e sembra aver capito. In mattinata ricevo la visita di Meme e Laura e la Camilla. Meme è il mio testimone di nozze, e io il suo. Abbiamo condiviso la casa a Pavia per 4 anni.  La sera arriva Gino, assieme a Max.  

Chiedendo un supporto psicologico, che chiederò in tutti i posti dove sono stato, conosco la psicologa che mi seguirà anche successivamente quando torneremo a Torino, e con cui mi apro per la prima volta e le parlo della paura di morire. È la prima volta che affronto di petto questa paura, e ne parlo con qualcuno. Mi farà bene parlarne, e decido di continuare su questa strada anche con le altre figure professionali che incontrerò, di non tenermi dentro nulla e di aprirmi. Provo un grande sollievo.

Secondo incontro della giornata la logopedista, che si dice fiduciosa della mia ripresa e ci lascia degli esercizi da fare.

Il 3 giugno la mattina Giulia chiede alla dottoressa se hanno sentito Alba per il trasferimento. La risposta è che non sarà prima di lunedì. Capisce allora che non hanno sentito proprio nessuno. “Ho sentito personalmente il dottor Tatoni, dice che lui è di turno oggi, domani e domenica, lo accolgono anche nel week end se necessario, e volentieri”. È proprio una gran donna mia moglie. “Allora dopo il giro visite chiamiamo e organizziamo il trasporto”. Verso le 12 arriva la fisioterapista, una bella tipa che si dice fiduciosa e ci ispira fiducia. Ci lasciamo con degli esercizi da fare nel week end. Prima di andare ad Alba vengono le due dottoresse, quella della Figa Pelosa e l’altra, quella del “non si dicono le parolacce Prando”, sono con mio fratello, e sto aspettando la croce rossa con i sandali, le calze, sul letto (avrebbero fatto il cambio lenzuola di lì a poco). E questo è stata il dialogo (da tenere presente che le mie parti sono impacciate e disfluenti e ogni tanto non mi vengono le parole… letteralmente!):



Dottoressa: Prando, allora ci salutiamo

Io: e sì…

Dottoressa: Prando… ma con i sandali sul letto…

Io: tanto devono cambiare le lenzuola!

Dottoressa: sì ma… i calzini… solo gli inglesi mettono i sandali con i calzini!

Fabrizio: sì ma noi abbiamo origini inglesi…

- Capisco che, come faceva mio nonno con il fratello, parte la “perculata”… ci sto!

Io: si è vero nostra mamma…

Dottoressa: ah sì?

Fabrizio: sì!

Io: sì è di origini anglosassoni

Fabrizio: sì ha fatto anche l’università, a Calachina!

Dottoressa: ah sì?

Noi due trattenendo come solo noi Prando sappiamo fare una risata: sì!







Calachina, che è il paese dove hanno abitato gli altri nostri nonni, è famosa, appunto, per la sua università… un paese di montanari, pastori, e che si raggiunge solo a piedi!

Poi subito la croce rossa ed il trasporto ad Alba. Sono con mio fratello in croce rossa, un viaggio indimenticabile dove ho parlato tutto il tempo con lui e con il ragazzo della croce rossa, che si è pure commosso quando l’ho ringraziato perché “sei una persona speciale, fai stare bene la gente”. Arrivo ad Alba, dove mi accolgono infermiere, infermieri, e il dottor Tatoni, che saluto con la mano destra. L’ho mossa così, in barba all’ipotonicità. È stato il più bel momento della mia vita. Come quando mi sposai, mi risvegliai dall’operazione, mi misi in piedi, mossi la mano… Ci sono stati tanti “momenti più belli della mia vita”. Ogni volta era una rinascita, e ho avuto la sensazione che il mondo mi appartenesse. Non ho mai avuto il tempo di domandarmi “perché proprio a me, a noi”. Statisticamente si ha più probabilità di essere investiti da una macchina, di finire coinvolti in un incidente, piuttosto che ti trovino un tumore al cervello o in qualsiasi altro posto del tuo corpo, e anche in questo caso non è che sei spacciato, quanti a cui avevano dato un mese di vita e poi dopo 13 anni ti raccontano “pensa che a me avevano dato 1 mese di vita 13 anni fa, e ora sono ancora qui a lottare…” (Marco).

Durante i giorni a casa, dopo il matrimonio, tra questo e l’operazione, avevamo portato dei confetti al reparto di neurologia di Alba. Si ricordavano di questo bel gesto, e quindi tutti erano pieni di cure nei nostri confronti. Non solo per i confetti. Ma mi viene in mente un detto imparato da una signora conosciuta a Rodello, che tutte le volte che mi vedeva me lo diceva: “Un bel sorriso di bocca costa poco e tanto tocca”. Ed è vero. Io ero sempre sorridente. E ho continuato ad esserlo, fino ad oggi per lo meno. Che è il 26 luglio 2016 (20 giugno 2017, anno del blog). Tanto per chiarire, oggi ho fatto la quinta seduta di radioterapia e ho preso per la settima volta le pillole di chemio. E sto aggiornando questa cronistoria emotiva. Finalmente mi sono messo a scrivere. Ho cominciato domenica scorsa (di un anno fa).




La partenza per Rodello



Il 4 giugno vengono Elisa e Simone da Padova. Gioco con Simone al gioco delle associazioni, gioco logopedico che prevede l’associazione di parole per idee, tipo: “film, regista, Monicelli, Parenti serpenti, mamma, donna, ragazza, bambina, cartoni animati, cartoni per imballaggi, spedizione, polo nord, neve, sci, impianto sciistico, impianto elettrico, lampadina, idea…”. È il mio gioco preferito al momento e lo impongo a qualsiasi persona venga a trovarmi. Dai miei parenti a Giulia. In più Simone e Elisa ci procurano delle biglie e dei dadi, con cui mi metto a fare esercizi per la mano con mio fratello e Giulia. In pratica devo spostare tenendo tra le dita le biglie o i dadi nei bicchierini delle medicine. È una gioia, e al tempo stesso una pena, pensare a questa mano, tanto perfetta prima quanto impacciata adesso. La devo recuperare al più presto.

Domenica 5 riceviamo la visita di Christian e Roberta. Scasso con il gioco delle associazioni anche Christian. Ed alzo la gamba.

Lunedì 6 la logopedista Alicia mi visita, e anche lei si dice fiduciosa. Si tratta di un’afasia transcorticale dinamica. I miei vanno a casa. Che è a 200 km da Alba. Io provengo da Cannobio, in provincia di Verbania, sul lago maggiore, in Piemonte sul confine svizzero. Mi fanno una TAC, e il dottor Bosco dice che l’edema sta riassorbendosi. Posso andare a Rodello. Verso l’ora di cena incontro Paola, la sorella di Giulia, e Nicolò, mio nipote. L’incontro con Nicolò è stato emozionante. Nicolò ha dieci anni, ha avuto problemi di disfonia da piccolo, non riusciva a parlare ed è stato in cura da una logopedista per anni. Quando gli ho spiegato (o cercato di farlo) quello che avevo, mi ha guardato e mi ha tranquillizzato dicendomi “eh lo so, ti capisco benissimo, anch’io ho avuto gli stessi problemi, ma poi passano, vedrai… ” dandomi una pacca sulla spalla. Era l’unico che poteva capire la mia frustrazione in quel momento, perché l’aveva vissuta su di sé. Non mi aspettavo una reazione tanto matura da un ragazzino di dieci anni, tanto che mi sono commosso e l’ho ringraziato.



“Finalmente la corriera per Rodello. Era una corriera delle prime, tutta spigoli e con la portiera sul didietro, e l’autista era poco meglio di un carrettiere. Con Toni si conoscevano perché si parlarono da mezzi amici, mentre quello da sulla predella forava i biglietti”.

(Fenoglio, incipit del racconto “Ferragosto”)




Rodello.



Martedì 7 giugno vengo portato a Rodello. Rodello è un ameno paesino su una collina vicino ad Alba, dista più o meno 30 minuti da casa dei miei suoceri.







Mi accoglie la dottoressa Decarlo, una fisiatra, e la logopedista Daniela. Con la dottoressa Decarlo ho una rivelazione. Una delusione pazzesca. La mano da tre giorni ha ripreso a lavorare, non dico come prima, ma da riuscire a firmare, o per lo meno scrivere nome e cognome, questo sì... Pensavo, per lo meno. Invece non mi ricordo più come si fa. È stato un momento bruttissimo. Avevo dimenticato come si scrive. È terribile sapere che sapevi fare una cosa e poi d’improvviso scoprire che non la sai più fare. L’ultima volta, ricordo, avevo firmato nello studio del dottor Mercatali la sera prima dell’operazione, il foglio che diceva che mi era stata spiegata in maniera esauriente tutta l’operazione e i rischi che comportava. Sapevo come farla. Ora invece mi sentivo un analfabeta. Perché riuscivo a leggere senza problemi e a scrivere invece no? Era in qualche modo legato alla mia afasia? Era un problema semplicemente legato alla coordinazione dei movimenti fini della mano? Nel lobo fontale sinistro si trova anche tutta la parte legata alla scrittura (mentre nel destro è quella del disegno), che ci fossero un po’ andati “lunghi”? Io ho recuperato prima la mano perché ho delle mappe mentali che grazie alla musica sono più vaste (e prova ne è che con la gamba ad oggi dopo 2 mesi dall’operazione non ho ancora ripreso l’uso di caviglia e dita e il bicipite femorale lavora un po’ come gli pare a lui, mentre con la mano suono il pianoforte come prima, ovvero come un bambino alle prime armi, ma lavora già meglio della sinistra su un metodo come l’Hanon, per chi lo conosce), però per quanto riguarda la scrittura, che è una capacità a sé, non avevo mappe se non quelle che hanno tutti i comuni mortali, e quindi le avrei dovute reimpostare da capo. Era un bel compito. E anche se ero un po’ spaventato mi posi come primo obiettivo questo: avrei reimparato a scrivere. Anche meglio di prima (cosa abbastanza facile per altro visto che la mia grafia prima era, per dirla come direbbe mia mamma, a "zampe di gallina"). Prima in stampatello, poi in corsivo. E via con pagine di letterine come alle elementari!












Poi mi faccio portare dei libri, per rifarmi un vocabolario: Il partigiano Johnny, di Fenoglio; il Canzoniere, di Saba; Armi Acciaio e Malattie, di Diamond; qualche Maigret e un po’ di romanzi “cupi” di Simenon; Insospettabili gialli, di AA VV (regalatomi da Piera); il già citato Sogni di sogni, di Tabucchi (regalatomi da Luisa); Musicofilia, di Oliver Sacks, regalatomi da Giacomo che, saputo dell’anticipo del matrimonio, non si tirò indietro dal venire comunque ad Alba dalla Grecia, per poi ripartire per Bari, in aereo, rischiando che io quel fine settimana fossi irraggiungibile e in ospedale… quando hai degli amici così ringrazi il cielo... o la terra…

P.S. Meme mi aveva regalato anche due volumi dell'"omino bufo", ma mi sembrava di aver dato un'apparenza d'intellettualità troppo alta per dirlo!








LA MATRICIANA MIA



Soffriggete in padella staggionata,

cipolla, ojo, zenzero infocato,

mezz’etto de guanciale affumicato

e mezzo de pancetta arotolata.

Ar punto che ‘sta robba è rosolata,

schizzatela d’aceto profumato

e a fiamma viva, quanno è svaporato,

mettete la conserva concentrata.

Appresso er dado che jè dà sapore,

li pommidori freschi San Marzano,

co’ un ciuffo de basilico pe’ odore.



E ammalappena er sugo fa l’occhietti,

assieme a pecorino e parmigiano,

conditece de prescia li spaghetti.



(Aldo Fabrizi)








P.I.P. (Pisciare In Piedi)



Rodello. Parte seconda.



Alle 15.30 ho la prima seduta di logopedia con Rossana (Daniela e Rossana saranno le due logopediste che mi seguiranno durante queste che dovevano essere 8 settimane). Mi muovo in sedia a rotelle, mi dà fastidio che Giulia sia così “presente”, anche se capisco che lo faccia perché mi vuole bene, io sono una persona che ama l’indipendenza, e più volte mi capiterà di innervosirmi con lei o chi mi sta attorno perché troppo premurosi nei miei confronti. Tante volte sono pure andato incontro a rischi inutili (cadute) per puntare i piedi a terra e voler affermare il mio diritto all’indipendenza. Credo che la cosa più difficile in una cosa come quella che stiamo vivendo noi sia proprio la dipendenza totale dalle altre persone. Non puoi stare da solo per il rischio crisi epilettiche, non puoi muoverti con l’auto se non accompagnato, non puoi guidare, anche perché con una gamba paralizzata non vedo come potresti fare, non puoi nemmeno decidere se farti una doccia o meno all’inizio. Per pisciare hai bisogno di qualcuno che ti porti il pappagallo, tanto che appena ho potuto ho chiesto a mio fratello di tenermi in piedi per farmi finalmente pisciare “dall’alto”, e non sapete che soddisfazione; appena ho imparato ad alzarmi dalla sedia a rotelle, anche solo per starci in piedi davanti, la prima cosa che ho fatto è stata andare in bagno e pisciare finalmente da solo in piedi. Per lavarti i denti hai bisogno di qualcuno che ti spazzoli i denti al posto tuo, pulirti il culo con la mano sinistra è un delirio, non parliamo del mangiare una cosa che si deve tagliare, non puoi uscire dalla clinica se non con un permesso che devi richiedere al medico, non puoi svegliarti quando hai voglia tu, e farlo per dei mesi compresa la domenica può diventare fastidioso. Metterti le calze con una gamba fuori uso può essere molto complicato, la cosa più complicata del mondo se poi anche la mano destra non collabora, la cosa più complicata dell’universo se hai anche la caviglia e le dita dei piedi che, seppur sensibili, non lavorano, idem le scarpe, idem un paio di pantaloni, non puoi più andare a ballare il sabato sera (anche se non l’ho mai fatto mi dava fastidio pensare che non potessi farlo), non puoi prendere dei lavori che vorresti fare, non puoi studiare, comunicare una cosa banale diventa una fatica.



Da Alba mi avevano lasciato senza dirmi che non avevo più la terapia al mannitolo, che serve a smaltire l’infiammazione, e che facevo tutte le sere. Dunque il mannitolo agisce ancora per sette-otto giorni da quando lo sospendi, la sua azione è essenzialmente diuretica, e viene usato in corso di patologie acute per eliminare edemi gravi, nel mio caso al cervello. La somministrazione via flebo avveniva al mattino e alla sera e l’effetto del mannitolo era l’urinare (pisciare) più volte durante il giorno e la notte, tanto che se sei allettato, o al massimo in carrozzina, devi farla in un pappagallo (e centra tu il becco), poi chiamare l’infermiere di turno che te lo svuoti. Il tutto per la gioia del tuo compagno di stanza. Allora, torniamo al fatto che dall’ospedale di Alba mi avevano lasciato senza dirmi che avevano sospeso il mannitolo, e che non sapevo che il suo effetto durava ancora giorni dalla sua sospensione, e che sapevo invece di avere un edema particolarmente importante al cervello. La prima sera a Rodello chiedo all’infermiera se avessero dimenticato di farmelo. Lei chiama il dottore di turno, che arriva (canottiera e camice aperto...) e mi chiede ad alta voce e scandendo le parole quale fosse il problema. Gli dico che può benissimo parlare a voce normale e anche veloce, che non ho problemi a capire ma solo a produrre. Però ci metto tanto a dirglielo. Provo a spiegare, con difficoltà, dato che sono in ansia, stanco, e preoccupato, e chiedo (inutilmente) che venga chiamato il dottor Tatoni. Mi sento abbandonato…

La mattina inizio logopedia con una “protesta”, (si ho detto proprio "protesta", ma non mi venivano in mente altre parole. Meno male che Daniela è una persona intelligente e che capisce il mio stato di agitazione). Vengo tranquillizzato, fa due telefonate, mi spiega che da Alba avevano scritto di sospendere il mannitolo, e così cominciamo le valutazioni, che dureranno fino a venerdì. Racconto (a fatica) quello che mi è successo. Lo farò tante volte, tanto che ogni volta provo meno dolore, una sorta di elaborazione, verbalizzare “afasicamente” non è facile, ma fa bene. Poi ho l’incontro con il fisioterapista Daniele, che mi dirà che ci vorranno due mesi per rimettermi a camminare, che non sa se recupererò l’uso del piede ma che tornerò a camminare. Mi piace la sua determinazione e il suo modo di fare, mi ricorda il mio allenatore storico di atletica leggera. Alle 11.30 arriva Giulia, per il pasto ho ancora bisogno di una mano (nel vero senso della parola), le racconto la storia del mannitolo e le chiedo di sentire il dottor Tatoni per avere la conferma che mi abbiano sospeso la terapia. Accendo il telefono, senza internet, per la prima volta dall’operazione. È una sensazione strana, ho deciso di tenere spento il cellulare dal giorno dell’operazione e dirottare tutte le chiamate, i messaggi, a Giulia.  



La giornata a Rodello è scandita in maniera ordinata ed “ecclesiastica”: alle 6.00-6.30 sveglia con consegna medicine. Alle 7.00 arrivo colazione e “abluzioni”. Ore 8.00 logopedia. Ore 9.30 fisioterapia. Ore 10.30-11.30 pausa lettura o sonnellino. 11.30 pranzo. Ore 12.30-14.00 sonnellino. Ore 14.00 logopedia. Ore 15 terapia occupazionale (con Lygia). Ore 16.30-18.30 incontro con visitatori. 18.30 cena. 19.30 consegna medicine. Ore 20.00 camomilla. Se poi calcoliamo che per gli spostamenti in carrozzina ci va almeno un quarto d’ora, per lavarsi in bagno quando non “c’hai su la mano” ti ci va almeno un altro quarto d’ora, per poi prendere l’ascensore che ti porta alle palestre devi aspettare anche 5 minuti perché sempre occupato… Devi calcolare tutto al dettaglio. All’inizio poi con una mano che lavora meno bene dell’altra continui a girare su te stesso, e continui ad aggiustare il tiro, e ti muovi lentissimo. Tanto che ti fai portare dall’operatrice tutte le volte che puoi. Per poi, in uno scatto felino di volontà di indipendenza trovarti in corridoio a “fare le prove” su come muoverti da solo, su come regolare i muscoli affinché ti portino dritto all’obbiettivo, e così facendo ti ritrovi in una settimana di allenamento ad essere meglio di Alonso e Räikkönen assieme e poter dire addio all’operatrice e muoverti indipendente tra le corsie, le palestre, gli ascensori di Rodello. Poi finisce la giornata con la visione di un film sull’I-pad. Poi le ultime 4 settimane mi farò portare la tastiera da mio fratello e a questo orario aggiungerò dalle 6.00 alle 7.00 lo studio del pianoforte. Il metodo Hanon a manetta per il recupero della mano destra. Qui ho scritto la gran parte delle musiche del mio nuovo disco, che, per non sbagliare ho chiamato: “With a star in the brain”... E poi tanti libri, per il recupero del lessico e per piacere personale…

Ora su Rodello convoglierò tutte le storie in un’unica grande parentesi. Non ci saranno racconti giornalieri, perché è stato un grande cammino in continua evoluzione, già dopo il primo fine settimana a detta di Daniela (la logopedista) avevo fatto un grosso passo avanti, in maniera del tutto autonoma, grazie alla lettura e alla volontà. Il mio motto era, patetico lo so ma non mi importa, l’alfieriano “volli, volli, fortissimamente volli”, e lo applicavo a tutto, anche alla ripresa della scrittura, agli esercizi in palestra, al pianoforte, ed era un continuo esercizio. Anche la notte, quando mi svegliavo (e mi svegliavo ogni due ore) era tutto un esercizio, la mano, la gamba… “Sai Daniele, stanotte sono riuscito a fare questo e quest’altro, mi si è riattivato il tale movimento o il tale muscolo…”: erano frasi tipiche di quel periodo! Sempre in maniera entusiasta mi affacciavo alle nuove giornate con le loro sfide, tanto che provavo imbarazzo di fronte ai tanti musi lunghi e rassegnati che incrociavo. Ma eravamo una bella squadra, io, Marco, l’altro Marco, Lorena, Renato, Giacomino, Teresio, Leo, Viviana, Maria. Tutti col sorriso stampato in faccia e con tanta voglia di farcela. Chi era lì “solo” per una protesi all’anca e chi gli avevano dato un mese di vita 13 anni prima, tutti nella stessa barca: Rodello. Era un “tifo” unico: “vai forte!”; “dai, dai!”; “non demordere!”, e devo essere sincero, tanto mi han detto e tanto ho incitato io che forse la terapia ha dato i suoi frutti anche per questo. Se si fosse stati ognuno per sé, incazzati per quello che ti era successo, ingolfati su pensieri negativi, forse questo periodo non sarebbe passato tanto in fretta e con tanti risultati.

Diciamo che i pensieri negativi trovavano spazio quando, all’ora di colazione, pranzo e cena, mi vedevo arrivare porzioni uguali a quelle che avrebbero dato ad una vecchia di 40 chili. Tanto che ero costretto ad integrare con pane nero, che mi portava quotidianamente Giulia, biscotti o torte fatte sempre da quella santa donna, frutta di cui facevo incetta a casa la domenica, e una quantità indescrivibile di grissini con il cioccolato. mmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmm.

 Ora con Renato, il mio compagno di stanza con cui formavo il duo “la strana coppia”, ci eravamo messi d’accordo per “imboscare” quanti più pacchetti possibili di grissini, per le emergenze. Renato poi si faceva portare dalle figlie chili di lardo e formaggio, e io da Giulia biscotti senza zucchero (Renato è diabetico), torte con farina integrale, cioccolato fondente: tutti generi di scambio approvati alla borsa nera di Rodello. Se non ci fosse stato lui credo proprio sarei morto di fame... ce la intendevamo bene poi, io, lui e Maria facevamo tante di quelle risate che non vi dico!

Parentesi.

A Rodello ho anche scritto delle poesie. Eccole. Senza voler fare il poeta.



Pensierino serale

Radi capelli d’anziano

paiono gl’alberi

sulla costa della collina

in langa.

Come pezzi d’un annoiata

partita a scacchi

pronti a dare

l’ennesimo matto.

Stanno lì,

saggi,

e guardano la vita

sfrecciar loro

di fianco

a bordo d’una rumorosa,

quanto incurante

d’Essi,

motocicletta.



Sipario

Quinte,

scenografie di cartone,

strappi neri su fogli blu

scuro

sembra la corona delle alpi

stanotte.

E in un teatro sociale

M’immagino di stare,

muto spettatore,

osservante rassegnato

il campanile di Diano,

unico punto,

fisso, immobile, immutabile,

e in ascolto

non con meno rassegnazione

dei rintocchi di quello

di Rodello,

così ipotetici,

che ogni volta ti chiedi:

“sarà Diano?”

così spigolosi,

così annoiati,

“no, per quelli

c’è tempo…”



E poi,

d’improvviso

ti rendi conto

di essere l’attore,

e per di più quello principale,

e che reciti a soggetto.

E allora quelle quinte,

quella luna

che finalmente tramonta,

ti fan da riparo,

da abito,

e reciti muto

senza aspettarti

l’applauso finale.

Se guardi in sala

Quando s’accendono le luci

Tutti stanno dormendo,

mentre tu:

distinto,

gentile,

dolce;

ti levi le scarpe

e senza far rumore

t’inchini

e te ne vai via.



Sorge la notte

Sorge la notte.

Nella città s’accendono le luci,

con supponenza

giovani s’accalcano. Vanno.



Io guardo ubriaco

tutte quelle storie,

quelle dimenticanze,

quella furba ingenuità.



Ed è solo

con l’odore della morte

che si comincia

a pensare alla vita.



La luna d’Alba

Le luci d’Alba

mostrano come un faro

la terra ferma.

La Vita.



Io naufrago.

Io navigante.

Io esploratore.



“Un’opportunità di crescita”.

Mi ripeto:

“Un’opportunità di crescita”

che mi costringe ad una guerra,

che mi costringe ad una resistenza:

“un tumore al cervello.”

Secco,

senza possibilità di aver capito male,

come la lettera

che ti chiama

alle armi.

O così me la immagino.



Ma nello stesso modo

la sicura risposta:

-PAURA-



Seconda parentesi. Logopedia artistica.



Tra gli esercizi di logopedia ce n’era uno che ho trovato divertentissimo, e consisteva nel creare frasi (anche non-sense) tutte con parole che hanno la stessa iniziale. Erano ammessi solo articoli o preposizioni con altre iniziali. Ecco le più belle e divertenti:



§  All’aldilà Alberto avrebbe alzato alti anziani;

§  Alessio ad Alassio adesca abbastanza agilmente algide adolescenti;

§  Adesso ad Alessandria Alessandra l’arpista addestra, anzi ammaestra animali ad ammassare alle alpi Apuane altolocate agavi, aristocratici avi, anche antiche anche;

§  Agush ad Anzio avrebbe anche annoiato Alberto ad andare agli aeroplani, Alberto anzitutto avrebbe almeno azzardato allietarsi all’altalena;

§  Berto Bugatti beveva birra bianca buonissima. Bella, bionda, Berty ballava: “Balla Bella che bollo e bollisco!!!”, balbettava bieco Berto Bugatti… briccone!;

§  Bartali batté Bignami ballando. Burrascosamente, banalmente Bignami belava: “bravo Bartali!”;

§  “Beatrice, bella bambina… Bombardare bambole…”;

§  Bombolo bramava bambole. Bastavano bozze, bidoni, budini, bigodini, bestie belanti, bufali, brufoli, bastavano e Bombolo brandiva bastonate;

§  Carlo cercava camuffato compagni con cui cacciare. Cacciava cervi, con cani, con calma cercava. Col cuoco Carlo cucinava, chiacchierando;

§  Col cucù che canta canto. “Cos’è che canti cucù? Che cantoni conti? Con che cosa carezzi Candida?”;

§  Christian, cinese con china cinematografica, conta cuccioli di cani, con cui cenerà;

§  Chiamami cara, con cura, con creanza, con calma. Conta che comunicherò col culo…;

§  Elisa è estetista ed elettricista. Esiste esclusivamente ergendosi elemosinando elogi;

§  Evaristo era ed è entomologo, entra ed esce ed esige esche esatte;

§  Ed è Elia, eccolo, ennesimo esempio di estremista estetico;

§  Francesca fa finta fra fresche frasche di felce, la fanciulla fumava finte foglie di fico;

§  “Folaghe, forti folaghe, fatate folaghe, fatevi forza fino alla fine!”;

§  Federico, fante a Forlì, fuggiva facendosi forza fino a Firenze fiero di Francesco;

§  Figli, fieri fiori, fatti fuori fra fumosi e fangosi fiumi;

§  “Frena!!!”, fumando fece forza fintanto che Fulvio frenò;

§  Guascone germanico Gustav gustava grandissime ghiande galvanizzanti;

§  Giorgio gettava gatti gemelli giù dalla gru;

§  Ilaria ironizza ilare sull’irsutismo di Ilario;

§  Irritante Irma, infine infilata, insospettabilmente illibata… immacolata;

§  Infermiere infilano intelligentemente innocui ed innocenti Inuit;

§  Ilona infiammava irrimediabilmente irti imeni;

§  Luca, lumaca laconica, levava lombrosiane lacrime a Leandro;

§  La luce lampeggiante lasciava la lenta lenticchia lacunosamente in laguna;

§  “Leoni; Lumache; Lamprede; Leocorni… Leocorni? LEOCORNI!?!?”;

§  La larva lavorava la lana, levava la lava, leccava le lingue, leggeva leggera leggerezze lungo la luganiga in Lunigiana con Luigina, la lumaca lieta, Luca, il leone lento, e Ludovico, il limone lungo;

§  Meme menava membri che manco Moana…;

§  Mentre meschino il micio mongolo miagolava Martino e Mauro menavano manubri in mancanza di membri;

§  Michele mi manda mero manichino a Milazzo;

§  Per Pietro potevano pure potare quei pini;

§  Paolo pesca pesci, papere, palombari, poi per poterli preparare pela pure pellicani;

§  Quando querce querule quaglieranno queste quattro quacquere querule quadreranno;  

§  Provai a parlare prosodicamente ma perpetravo pena;

§  Ruggero ruggendo col registratore registrava re romani, riuscendo raramente a registrare il rombo del rinoceronte rincoglionito che ricoverava Ringo, la ranocchia reumatica;

§  Riccardo ricostruiva rarità rubate, Renato reagiva recandosi a Recco;

§  Ratti e rondini rubavano reti rotte da razzi, per ripararle con rododendri e ribes rossi;

§  Simone saltava sul sofà salutando salubri svedesi, si svestivano, sensualmente stavano stese… Simone, sguardo sornione, sveniva, Susanna, svedese strana, Sara, svedese soave, somministravano subito il siero per il sonno. Simone subito si svegliò, si svestì, scopò Susanna, snobbando Sara, che si suicidò. Simone sposò Susanna;

§  Serpi stavano stese sopra soffitti segreti. Stufandosi si sfidavano al “siero secreto”.




29 aprile 2016 vs 29 aprile 2017 !



Oggi non ho voglia di parlare di quanto mi è successo un anno fa. Ma di qualcosa che ho costruito grazie a quello che mi è successo un anno fa. Esattamente il 29 aprile 2017, ad un anno esatto dalla prima crisi epilettica, sono entrato in studio con un "manipolo" di amici musicisti e ho fatto questo disco, prodotto da NOTWORK.PRD e distribuito dalla Grottino Records... ma lasciate che vi racconti...

Io, come ho già detto, faccio il musicista. Ho abbandonato il jazz anni fa, perché "o fai una roba bene o non la fai". Però per divertimento incido ancora qualche disco con degli amici (andate a vedervi la mia discografia sul mio sito www.simoneprando.it , così potete anche conoscermi meglio e ascoltarvi un po' di musica mia...).

Durante quest'anno ho scritto, scritto, scritto... musica ovviamente, tanto che, ad esattamente un anno dalla prima crisi epilettica (29 aprile 2016), che ha scatenato tutto sto casino, sono entrato in studio, sbattendomene della mano che ancora non avevo a posto, invitando Gino Zambelli col bandoneon, Marco Tiraboschi con la chitarra, Achille Succi col clarinetto, mio fratello (Fabrizio) con l'altra chitarra, e io col contrabbasso e abbiamo registrato. Tutto senza nemmeno una prova. Se non che avevo mandato le parti tempo prima e tutti hanno avuto modo di guardarsele, anche se c'era un'atmosfera tale in quello studio (Digitube studio, a Mantova, dal caro Carlo Cantini) che sicuramente sarebbe uscita della musica straordinaria lo stesso. I titoli dei pezzi riguardano la storia di quest'anno: AFASIC, FLATLANDIA, SEPTEMBER, OPPORTUNITY, THE LIMPING CAMEL, EPILEPSY e infine WITH A STAR IN THE BRAIN...



AFASIC

è un brano "incasinato", che col tempo si "ordina" da sé. È esattamente quello che prova un afasico nella sua testa, o per lo meno quello che provavo io… all'inizio un gran rumore di fondo, il cervello è come immerso in una folla che vocifera, tu non riesci a parlare perché letteralmente “non trovi le parole” per farlo. Anche se capisci quello che ti dicono (il bandoneon) non riesci ad esprimerti, poi giorno dopo giorno ti abitui, ed entra il basso, e si fa sempre più chiaro il disegno del bandoneon. Quindi parte la prima frase (suonata anche dall'amico violinista Vincenzo Albini) che rappresenta la difficolta di voler dire qualcosa che abbia senso, e finalmente ce la fai, le prime parole che dissi io furono “grazie”, e una delle notti che passai in ospedale la passai a “studiarmi” la frase per tranquillizzare i miei familiari: “è il normale decorso della malattia”; poi: “il giorno più bello della mia vita fu quando mi sposai”...era successo una 15ina di giorni prima…).

E così rimane da solo il basso e comincia a riordinarsi tutto!



FLATLANDIA

è ispirato al libro di Abbot, che per me ha un valore di "punti di vista", di “ordini di priorità”. Ogni tanto bisogna fermarsi e guardare le cose come se si fosse fuori dal mondo, e quindi accettare altre dimensioni e forme, e questo è quello che ho fatto io "grazie" a questo tumore...



SEPTEMBER

quando abbiamo avuto finalmente un mese di pausa da tutte le cure, terapie siamo stati a Cervia. Quei posti mi fanno venire in mente le feste in piazza romagnole e i complessi di liscio, quindi ho scritto un tango…



OPPORTUNITY

quello che fin da subito mi sono detto per sopravvivere col sorriso a questa storia: “un’ opportunità di crescita”. Ora a ben vedere dopo un anno e mezzo da quando è successo mi vien da dire che se fosse durata qualche mese di meno sarebbe stata comunque una bella opportunità di crescita, e forse l’avrei preferita. Reimparare tutto, come un bambino, mi ha permesso di conoscere meglio il mio corpo. Ho visto la metà del mio corpo paralizzata riprendere a muoversi muscolo dopo muscolo. Ho reimparato a scrivere, come alle elementari. Ho reimparato a parlare. A camminare, che era dato per scontato nel mio bagaglio d’azioni. Ad andare in bici lo sto ancora imparando, e non ho mai goduto tanto nel cadere come ora! Per salire, attenzione non andare, ma salire, ci ho messo un buon mesetto. E ancora adesso non riesco a correre. Quindi si, una bella opportunità di crescita. Che continua…



THE LIMPING CAMEL

riguarda un sogno che ho fatto a Torino, dove ero un grosso dromedario con la gobba sotto la pancia (si, diciamolo, avevo un attacco di diarrea dovuto alle radioterapie e chemio assieme, ero pieno d’aria che sembravo gonfio come una mongolfiera...). Il fatto poi che sia zoppo, questo dromedario (limping), è perché per colpa delle radioterapie si infiammava non solo il residuo, ma anche il tessuto attorno, e la gamba era la prima e la più estesa zona colpita Quindi tutti i progressi che avevo fatto nelle 7 settimane dopo l’operazione in una clinica di riabilitazione, andavano ora regredendo.



EPILEPSY

è la storia del mio primo attacco epilettico. All'inizio tranquillamente sul divano, poi diventa sempre più un ritmo e un'armonia complicata sui soli, per finire con un solo di chitarra elettrica con distorsori che va via sfumando, il che rappresenta la mia perdita di coscienza. È stato davvero terribile, pensavo ad un sogno, ti senti ad un tratto non più padrone del tuo corpo, te ne vai via, perdi il senso del tempo, vedi il tuo corpo che si contrae in spasmi ritmici, e ti manca il fiato, ti senti soffocare… poi perdi coscienza e quando ti riprendi non sai se è passato un minuto o due giorni. 



WITH A STAR IN THE BRAIN

solo un canovaccio, ho chiesto alle chitarre di accompagnare con armonici liberi, al clarinetto e bandoneon, invece, che avevano sotto gli occhi una "parvenza" di tema di andare "a cuore". E proprio grazie a questo, chiamiamolo espediente, ho voluto sentire cosa uscisse, e mi sono reso conto che sembrava lo spazio infinito... quindi come dice la poesia della Dickinson che ho inserito nel libretto: "THE BRAIN is wider than the sky (...)", "il cervello è più ampio del cielo..."



La grafica del cd è stata curata da Simone Barbiero, altro grande amico ed è FICHISSIMA!!!







P.S. Lo potete trovare in tutti gli store on-line…

Itunes:

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Spotify:
AppleMusic:
invece se lo preferite in formato "tradizionale" scrivetemi: simoneprando84@gmail.com
www.simoneprando.it )





M.A. (Masturbazione Approvata...)





LA PURCE



Una Purce sbafatora,
che ciaveva l'anemia,
pe' guarì 'sta malatia
succhiò er sangue a una Signora,
ch'a quer pizzico fu lesta
d'arzà subbito la vesta.

Dice: — Bella impertinenza
de venimme su le gamme!
Chi t'impara a pizzicamme?
Chi te dà 'sta confidenza?
Bada a te, brutta carogna,
se me capiti fra l’ogna... —

Ma la Purce impertinente,
che per esse più sicura
s'era messa a fa' la cura
da la parte de ponente,
ner sentisse di' 'ste cose
fece un zompo e j'arispose:

— Com'è mai che a un certo tale,
che te pizzica l'istesso
tanto forte e tanto spesso,
nun je strilli tale e quale?
Puro quello, a modo suo,
nun te succhia er sangue tuo?

Sai perché? Perché a 'sto monno,
speciarmente a le signore,
j'aritintica l'onore
solamente co' chi vònno... —

La Madama, a sentì questa,
calò subbito la vesta.



(Trilussa)



La crioconservazione del seme.



Eravamo pronti a questa evenienza. D’altra parte ci eravamo informati abbastanza sull’argomento, non perché volessimo nell’immediato avere un figlio, o una figlia, ma perché non volevamo ci si precludesse a tale possibilità per via della chemioterapia. Quindi quando abbiamo saputo dell'esigenza di radioterapie e chemioterapie abbiamo pensato di chiedere per la crioconservazione del seme, temendo in un effetto irreversibile. In realtà poi quando siamo andati dall’andrologo a fare la visita, ha confermato i nostri timori, consigliandoci caldamente di non cercare un figlio durante la chemioterapia e nemmeno nell’anno successivo, e di fare dei controlli in ogni caso prima, ma che, nel mio caso, con un tumore al cervello, la cosa sarebbe stata, verosimilmente, temporanea.

Quindi, nella più grande emozione, in pieno spirito collaborativo, e pieno di entusiasmo, mi affaccio alla prima masturbazione ufficialmente approvata della mia vita. Mi vengono date, in forma del tutto casuale, come se ce le avesse lì per qualsiasi altro motivo, delle riviste (chiuse in una cartelletta). E il dottore se ne va, consigliandomi di chiudermi dentro, e consegnandomi il “barattolino” dove avrei dovuto dimostrare la mia mascolinità, mi guarda pieno di speranze. Penso che non userò mai delle riviste che chissà quante mani hanno toccato. E in questo caso ancora meno. Mi lavo le mani e sono pronto. Primo problema, dove? Mettermi sul lettino, stare in piedi, appoggiato e basta? Scelgo il lettino. Secondo problema. Ho una mano, quella destra, “Federica”, che non collabora ancora. Sebbene possa fare affidamento sull’effetto ben noto al popolo maschile della famosa “mano dello sconosciuto” la cosa al momento mi inquieta e devo reimparare un gesto che da più o meno tre mesi non pratico più. Poi lo studio, asettico e per niente complice. Decido di aprire le riviste. Sono riviste che nemmeno dei camionisti berberi oserebbero sfogliare. Devo più volte capire da che parte si devono guardare perché sono così estreme che… ei funzionano! Vai. La mano collabora, anche se ha poca sensibilità e temo che quando dovrò riempire il barattolino mi possa giocare qualche brutto scherzo. Ma non ci penso e tiro dritto per la mia strada, pensando alla mia onorevole causa. Ecco, dove ho messo il barattolino?! Eccolo! Prendo la mira o “ce lo infilo”? Cielo tocco la plastica! No, aspetta! La mano non ti conosce più piccolo grande amore mio… Aspetta… Nooooo!!! Faccio talmente poco liquido da vergognarmi di me stesso. La frustrazione è alta. Ma mi lavo le mani, apro la porta, e aspetto fiducioso il dottore. “Dottore, basta?”. Lui da buon padre di famiglia prova a rincuorarmi dicendo che in ogni caso un secondo “prelievo” era previsto, che lo fanno tutti, che nemmeno l’ambiente aiuta, che il caldo. E così ci mettiamo d’accordo per un secondo “prelievo”, da farsi però direttamente in laboratorio, il lunedì successivo.

Il lunedì mi preparo come non mai. Non mi sono allenato alla clinica perché è necessario astenersi dal sesso e dalla masturbazione. Scherzo con mia moglie sul fatto di dover andare da Rodello a Torino per farmi una sega. Ho dormito bene. Ho fatto una bella colazione. C’è bel tempo. Tutto sembra presagire una buona performance. Alle 8 ci presentiamo al laboratorio. Si presentano due dottoresse e mi dicono con sguardo sornione che mi stavano aspettando. mmm quando mi viene detto così... Mi consegnano il solito barattolino, mi indicano un bagno dove poter dare il meglio di me, mi indicano le solite riviste (che in questo caso sono molte di più e ho potuto scegliere tra “poppe al vento” o “sederi selvaggi”, io mi chiedo pieno di stupore perché non riesca a trovare “dottoresse con fighe pelose”, ma poi lo trovo e passo oltre. I titoli ovviamente sono stati edulcorati per un pubblico delicato che penso sia quello che entrerà in possesso di queste righe…), e mi lasciano solo. L’ambiente è anche peggio dello studio, qui abbiamo un water da una parte, dove decido che mai mi sarei seduto, dall’altra un lavandino, poi la finestra con il suo davanzale, dove decido di appoggiare le riviste per farmi la... lasciamo perdere. Il caldo è micidiale, ma dato che siamo al piano terra non posso certo aprire la finestra. Mi do da fare con “Federica”, sono pronto, sono deciso a non mollare e non rifare gli errori dell’altra volta. Sono cambiato, ora sono maturo per una relazione duratura e soddisfacente per entrambi. Non mollarmi proprio ora, sul più bello. Vai il barattolino l’ho lì in bella vista. La mira è buona. Anche l’iniziativa non manca. E… Vai! Riuscito! Ora mi lavo le mani, chiudo le riviste nella loro cartelletta, mi rilavo le mani, e poi esco con il barattolino trasparente a mostrare a tutto il reparto che sono uomo. Consegnerò il contenitore con il liquido alle dottoresse che mi guarderanno insaziabili del mio fascino per l’ultima volta e me ne andrò con mia moglie sotto braccio e invidiata e odiata da tutto il reparto. Si, sono soddisfazioni.




Torino.  “Radio Therapy”.



5 agosto 2016.



“Ben sintonizzati su Radio Therapy, la prima radio che parla direttamente al vostro cervello. Qui potrete ascoltare voi stessi canticchiare dall’interno di una inquietante maschera di plastica le vostre hit preferite, oppure dedicare alle vostre morose gli evergreen dell’amore, quali “only you” dei Platters, “mi sei scoppiato dentro al cuore” di Mina oppure, per i tipi originali che vogliono mandare un messaggio chiaro alla loro ex: “adius” di Piero Ciampi…

Così mi immagino da poco più di due settimane che potrei iniziare queste sedute. Dunque, il procedimento è semplice: ti chiamano all’altoparlante della sala d’aspetto, entri in uno spogliatoio dove ti prepari, poi ti richiamano da dentro, se sei un tipo educato saluti, se sei un tipo “ok” scambi anche un paio di battute con i tecnici (alla lunga però capisci che non puoi essere originale e senti che quella battuta ti è venuta un po’ “così”, che quell’altra chissà quante volte l’hanno sentita, e così via…), ti sdrai sul lettino di metallo, appoggi la testa su un cuscino speciale che segue la curva del tuo cranio ed ha una larghezza di circa 15 cm, una sorta di mezzaluna, poi ti mettono la maschera personalizzata (ne abbiamo già parlato), e parte la “trasmissione”: “siamo in onda su Radio Therapy, la prima radio che trasmette direttamente sulle onde del vostro encefalo, sul 88.90 delle onde Teta e 100 sulle onde Gamma…”

Le sedute durano una decina di minuti, in cui si sente un suono come quello che producevano i vecchi 386 direttamente dal case, come quello di un pc quando si impalla, e il macchinario che si muove attorno a te. Non è simile ad una TAC, perché non si entra in un tunnel, tubo, dir si voglia, ma è come una grossa lampada da dentista con un puntatore laser. Poi, finita la seduta, ti tolgono la maschera, e te ne puoi andare. Tutto qua. Semplice, lineare, non c’è da aver paura. Se non che durante la prima fase è prevista una regressione di tutte le capacità che avevi faticosamente recuperato nel mese e mezzo precedente, perché si andranno ad infiammare anche i tessuti prossimi al residuo di tumore. Messo in conto. Non mi spavento mica, tanto “ho fatto talmente tanto in quel mese e mezzo che non si noterà nemmeno…”. Così torno a parlare come un robot (anche se tutti gli amici e i familiari mi dicono che non è vero, io sento una regressione almeno di un mese di lavoro, non ho anomie, posso tranquillamente fare discorsi di qualsiasi genere, tranne quando sono stanco, ma nella fluidità ho perso molto), e la gamba lavora come lavorava qualche settimana fa, con momenti di ipertono, trascinandola, e la caviglia non lavora più come quando avevo lasciato Rodello. La mano invece ha perso tanta forza, ma tenendo duro col pianoforte e il contrabbasso sento che non regredisce come le altre funzioni. Non dimentichiamo che è stata la prima a recuperare. Quindi, questo il bilancio di 12 sedute di Radio Therapy. Un po’ più di un terzo, quasi metà ciclo, che prevede 30 sedute. Ma tutto come da copione, la dottoressa ha detto che nella seconda metà del ciclo dovrebbe esserci un miglioramento delle funzioni, e quindi di non spaventarsi. Speriamo. Io intanto continuo con le mie camminate (con mio padre e mio fratello martedì ci siamo fatti un’ora e venti in giro per Torino, li ho fatti sudare, tanto che hanno valutato l’idea di regalare a Giulia uno di quei baracchini a due ruote elettrici su cui ti muovi semplicemente avanzando col baricentro, perché anche lei fatica a starmi dietro), e gli esercizi che mi ha lasciato Daniele, il pianoforte cui ho affiancato un programma di recupero sul contrabbasso, e tra un pisolino e l’altro la lettura. Non mi fa più piacere, anzi lo trovo una penosa pena il sentire al telefono gli amici, perché sebbene provi piacere nel sentirne la voce, il fatto di non sentirmi fluido mi provoca ansia, ansia da prestazione, che è un po’ il mio problema, e mi deprimo. Quindi tengo spesso il telefono offline e comunico più che altro per messaggi. In più ho le chemioterapie, tre pillole da prendersi alle 10.30 del mattino. Che sommate alla terapia anti-epilettica (tre pillole al mattino più quattro la sera), all’anti-depressivo (una pillola la mattina assieme all’anti-epilettico), al cortisone (32 gocce al mattino assieme alla terapia anti-epilettica e all’anti-depressivo), al gastroprotettore (mezz’ora prima di tutte le cose già elencate), all’anti-emetico (mezz’ora prima della chemio terapia): mi danno un bisogno di dormire assurdo. Allora ho organizzato la mia giornata così: sveglia alle 7.30 (la notte seppure vada a letto sempre con un sonno micidiale non dormo mai più di due ore di seguito, guardo continuamente l’ora e mi riaddormento, ma mi accorgo che mi sveglio sempre riposato e anche prima della sveglia, quindi va bene), gastro-protettore sul comodino; scendo a prepararmi la colazione che consiste in: una banana, un caffè-latte con due tipi di biscotti integrali (una quantità incalcolabile), 4 fette biscottate integrali con marmellata/crema di nocciole. Devo pur sempre fare i conti con il cortisone e devo tirare fino all’ora di pranzo perché il Temozolomide, ossia la chemioterapia, ha bisogno di essere presa con almeno due ore di stomaco vuoto perché venga assorbita meglio dal corpo e con un’ora di fame atavica dopo per la stessa ragione. Dopo colazione inizia il balletto delle medicine: anti-depressivo, anti-epilettico (due pillole da una scatola e una da un’altra) e cortisone. Poi scrittura (come stamattina) o pianoforte o passeggiata se Giulia è sveglia con ginnastica varia dopo, o copia delle parti per il disco che ho programmato di fare. Arrivano così le 10, anti-emetico che mi protegge dalle nausee che potrei avere con la chemioterapia, mezz’ora dopo la chemioterapia. Poi per un’oretta passeggiata se non l’abbiamo già fatta (e sono sempre legato ai miei compagni di ventura per le crisi epilettiche che potrei ancora avere) altrimenti un po’ di pianoforte, un po’ di lettura, fino alle 11, quando mi appisolo sul divano. Alle 11.45/12 pranzo, che consiste in cibi sani e nutrienti, facili da digerire, tanta verdura e frutta, che data la stagione (agosto) ce n’è in abbondanza, legumi, riso, pasta integrale. Ho notato che quando mangio cose di questo tipo il mio corpo reagisce meglio a quando mi lascio andare a gozzoviglie varie perché siamo ospiti di qualcuno, si va a mangiare fuori o perché ospitati. Alle 12.30 andiamo in ospedale, radio terapia alle 13/13.30 (c’è sempre una mezz’ora di variante in queste cose), poi a casa pisolino fino a quando riesco. Verso le 16 merenda, con una tisana e biscotti, 16.30/17 studio un po’ di contrabbasso (voglio riprendere il prima possibile con la mia vita), quanto riesco perché con una gamba che “pigola” viene presto mal di schiena. Alle 18 mi metto al pianoforte o usciamo un po’, a fare la spesa, prendere il pane, insomma fare due passi, 19 cena (stesso ragionamento del pranzo). 20 terapia anti-epilettica che consiste in tre pillole di un tipo e una di un altro, 20.30 film o libro, 22.30 distrutto a letto.

Ho notato che ho bisogno proprio di riposo in questa fase, e di fare cose con un certo ordine, disciplina, di non perdermi via, e se potessi essere indipendente sarei più soddisfatto. A Rodello il fatto di poter andare in palestra quando se ne aveva voglia, il fatto di dipendere da qualcuno che c’è sempre ed è sempre sveglio e al tuo servizio, mi aveva fatto dimenticare quanto la dipendenza da qualcuno che non ha i tuoi ritmi sia pesante. Ora non dico che Giulia debba essere al mio servizio, non sarebbe mia moglie e non lo vorrei, mi sembrerebbe di sfruttarla e mi sentirei in colpa, ma se tu hai un ritmo e la persona da cui in questo momento dipendi ne ha altri può essere frustrante, e il non volerne discutere perché ti sentiresti un peso per questa persona lo è altrettanto, e quando ti fermi a pensare e capisci che questa persona e tutte quelle che ti stanno attorno stanno mettendocela tutta per non farti pesare il fatto che si danno da fare per te, entra in gioco la propria volontà di indipendenza e punti i piedi in terra e fai o dici cose di cui ti penti subito, ma proprio per questo giochino dell’indipendenza ci metti un po’ a chiedere scusa e a rassegnarti alla tua nuova identità: malato.






Agl’amici.

Agl’amici che l’ombra muta
Adorna va questo mio verso,
Che la vita mia, lo confesso
Trova pace in quei confini.

C’era un tempo in cui s’era vicini
Dove sembrava normal cosa ‘l piatto
Dove al pianto il riso era riscatto
Ed un circo coi suoi profumi la Vita.

Quand’ancora posso posare
Nell’ombra vostra la mia pelle stanca
A quei giorni la mia mente va. E manca…
Ma poi sereno mi torno a raccontare
Che con gl’anni le distanze non sono che parole

E al crepuscolo poi l’ombra allunga... Basso il sole.


(Simone Prando, Firenze, 20 aprile 2016)



Radio Therapy. Parte seconda.



Quando ho ricevuto la lettera dall’INPS dove mi riconoscevano una invalidità civile al 75%, permanente con obbligo di visita dopo un anno per il rinnovo, ho avuto una strana reazione. Sono incazzato, perché ho voglia di lavorare. Mi ha messo in crisi la parola “permanente”. Nello stesso modo in cui mi aveva messo in crisi la parola “maligno” nella richiesta del medico di Rodello quando gli ho chiesto di compilare la scheda proprio dell’INPS. Prima di allora non era mai stata utilizzata quella parola, e nemmeno avevo mai chiesto se fosse un tumore “benigno” o “maligno”, perché inutile saperlo, era da operare e basta, e perché sotto sotto non ne conoscevo la differenza, e avevo paura della parola “maligno”. Perché tutte le volte che l’avevo sentita associata alla parola “tumore” veniva pronunciata sotto voce, con una sorta di emozionante paura mista a reverenza, come se con il rispetto dato dal pronunciare queste parole si potesse evitare di invitarle a casa propria o per lo meno che ti toccassero. Perché erano sempre, e dico sempre, associate ad una morte. Be’, la lettera dell’INPS mi mette in crisi perché sebbene nel mio caso è più che giustificata, sento il bisogno di lavorare, l’unica volontà che ci differenzia dal mondo animale secondo la visione umanesimo socialista di Fromm. E tanti sarebbero più che felici di avere un assegno (che ad oggi non so nemmeno di quanto sia) non facendo nulla. Sento il bisogno di comprare un altro archetto, perché investendo nel mio lavoro so che non mollerò, mi sento come un bambino di fronte ad un gioco nuovo, che si entusiasma per giorni. Tutte le volte che sono entrato in crisi cominciavo a girare su internet cercando qualcosa che mi permettesse di lavorare meglio. Lo shopping costa meno delle terapie, è scritto in una vetrina davanti a casa, ma lo shopping quello non banale fatto di scarpe, vestiti, beni che lasciano un po’ il tempo che trovano, lo shopping per il tuo lavoro, quello sì che è come una terapia. Magari non è vero che costa meno… Tant’è che alla fine ho speso 2.500 euro per un archetto...










“Ma torniamo a Radio Therapy, le frequenze che lasciano il segno fin nel cervello. Ora va in onda la canzone “La radio”, di Eugenio Finardi; che recita: “Con la radio si può scrivere, leggere o cucinare…”, e affermiamo che NON È PER NIENTE VERO! Con la radioterapia c’è da stare immobili, ti mettono una maschera immobilizzatrice apposta… Ed ecco ora un bell’articolo dal sito dell’AIMAC, Associazione Italiana Malati di Cancro, per chi volesse approfondire un po’ l’argomento.”



Riporto qui sotto l’articolo per intero: 





“La radioterapia consiste nell’uso di radiazioni ad alta energia per distruggere le cellule tumorali, cercando al tempo stesso di danneggiare il meno possibile le cellule normali. Per i tumori cerebrali la radioterapia si può effettuare:

dopo l’intervento chirurgico per distruggere il tessuto tumorale che non è stato possibile asportare e per eliminare le cellule neoplastiche eventualmente rimaste in circolo anche dopo l’asportazione del tumore;

nel caso in cui la malattia si ripresenti dopo la chirurgia;

nel caso in cui si tratti di tumori secondari.

Spesso rappresenta una delle poche alternative terapeutiche per i tumori inoperabili. La seduta di trattamento si esegue presso il centro di radioterapia dell’ospedale, ripartita in sessioni giornaliere (tranne sabato e domenica). La durata del trattamento dipende dal tipo e dal grado della malattia e può variare da una a sei settimane. Durante la seduta si rimane soli nella sala, ma si può comunicare con il tecnico che controlla lo svolgimento della procedura dalla stanza a fianco. Prima di iniziare il trattamento il tecnico vi sistema sul lettino nella giusta posizione; per ottenere la maggiore efficacia possibile dal trattamento è necessario rimanere fermi fino al termine della seduta. Per aiutarvi a mantenere la posizione corretta si può ricorrere ad un sistema di immobilizzazione e contenimento con una maschera di materiale termoplastico, precedentemente confezionata e personalizzata. La maschera consente di vedere e respirare normalmente, ma potrebbe risultare inizialmente fastidiosa e provocare anche un senso di soffocamento dovuto alla sensazione di claustrofobia. Data la brevità della sessione di trattamento, la maggior parte dei pazienti si abitua facilmente. Ottenuta così la giusta posizione, gli operatori escono dal bunker lasciandovi soli per l’intera durata della seduta. Il tecnico aziona la testata dell’acceleratore lineare che, ruotando intorno al lettino, raggiunge la posizione corretta per dirigere le radiazioni sull’area da trattare. In caso di problemi, un apposito sistema audio-video consente di comunicare facilmente con gli operatori. L’erogazione vera e propria del fascio di radiazioni dura solo pochi minuti.

La radioterapia non è dolorosa né rende radioattivi e si può stare a contatto con gli altri, anche con i bambini, senza alcun pericolo per l’intera durata del trattamento.

Pianificazione del trattamento

La pianificazione è una fase molto importante, perché da questa dipende la possibilità di trarre il massimo beneficio dalla radioterapia. Una volta stabilita l’indicazione alla radioterapia, sarete sottoposti alla cosiddetta TC di centratura. È in questa fase che il radioterapista definisce con la massima precisione le dimensioni e l’orientamento dei campi di irradiazione, proteggendo dalle radiazioni le aree cerebrali limitrofe sane. 

Le immagini così acquisite servono al radioterapista e al fisico sanitario per elaborare il piano di cura. Una volta stabilita definitivamente la zona da irradiare, il campo è delimitato sulla cute eseguendo, con un ago sottile e inchiostro di china, dei tatuaggi puntiformi permanenti, che hanno la funzione di rendere facilmente individuabile l’area da irradiare e assicurare la precisione del trattamento per tutta la sua durata. È possibile fare la doccia o il bagno senza il timore di cancellare questi segni “di sicurezza”.

Il trattamento convenzionale è la radioterapia a fasci esterni (detta anche transcutanea), che consiste nell’irradiare la zona interessata dall’esterno, utilizzando, nella maggior parte dei casi, un acceleratore lineare. Presso centri di alta specializzazione è disponibile una tecnica più sofisticata, la radioterapia conformazionale, che, oltre ad utilizzare un acceleratore lineare, colloca nella traiettoria del fascio di radiazioni un collimatore multilamellare, un dispositivo che consente di conformarlo quanto più possibile all’area da irradiare e, quindi, di orientare sul tumore una dose di radiazioni più elevata, riducendo al tempo stesso l’esposizione dei tessuti sani circostanti e, di conseguenza, gli effetti collaterali. Nel caso della testa, ciò consente di risparmiare strutture critiche quali i nervi ottici, il chiasma, il midollo allungato.

Per taluni casi di tumori cerebrali si può fare ricorso alla radiochirurgia stereotassica. Questa tecnica prevede un’immobilizzazione ancora più accurata mediante un apposito casco o maschera termoplastica e la somministrazione di dosi molto alte di radiazioni in una o massimo cinque sedute. Le lesioni sono irradiate con precisione estrema dall’acceleratore lineare da centinaia di angoli diversi, che s’intersecano nel punto in cui è localizzato il tumore. La radioterapia stereotassica si realizza con macchinari di alta tecnologia.

Effetti collaterali

La radioterapia alla testa può causare disturbi generali (nausea e stanchezza), ma anche più specifici, la cui entità dipende dall’intensità della dose di irradiazione erogata e dalla durata del trattamento. Gli effetti collaterali tendono ad acuirsi nel corso del trattamento, persistono più o meno per una settimana dopo la sua conclusione e poi cominciano gradualmente ad attenuarsi fino a scomparire. In ogni caso è indispensabile informare il radioterapista se dovessero protrarsi per più tempo.

Gli effetti collaterali della radioterapia alla testa possono comprendere:

nausea, vomito: si possono controllare efficacemente con la somministrazione di antiemetici oppure di cortisone (nel caso lo si assuma già, il radioterapista può consigliare di aumentare la terapia in corso);

difficoltà a deglutire: si può controllare con una terapia a base di cortisone (v. sopra);

stanchezza: durante e dopo la radioterapia si possono accusare stanchezza e sonnolenza. La stanchezza può persistere per alcuni mesi dopo la conclusione del trattamento. I medici usano spesso il termine fatigue per descrivere questo senso di spossatezza. In caso di sonnolenza, il radioterapista può prescrivere una terapia a base di cortisone oppure consigliare di aumentare quella già in corso. È importante imparare ad ascoltare il proprio corpo: prendersi il tempo necessario per ogni cosa e riposare molto;

caduta dei capelli: è l’effetto collaterale più importante. Nella maggior parte dei casi i capelli cominciano a ricrescere nell’arco di due-tre mesi dalla conclusione del trattamento, ma se l’intensità delle radiazioni sarà stata notevole e il trattamento prolungato, in taluni casi la perdita dei capelli potrebbe essere permanente;

reazioni cutanee: in taluni casi la cute dell’area trattata si irrita, sviluppando una reazione simile all’eritema solare che di solito compare nelle prime tre-quattro settimane di trattamento e scompare nel giro di due-quattro settimane dopo la sua conclusione. L’entità della reazione cutanea varia anche in funzione della sensibilità individuale. La cute interessata da una reazione cutanea tende a desquamarsi. Non usare saponi e talco profumati, deodoranti, lozioni e profumi perché possono contribuire ad irritarla. Lavare la zona da irradiare possibilmente con acqua tiepida e asciugarla tamponandola delicatamente con un asciugamano. Gli uomini sottoposti a irradiazione della testa e del collo facciano attenzione quando si radono.

Possibili complicanze tardive, che compaiono dopo alcuni mesi e/o anni dalla radioterapia, anche se rare, sono i disturbi della memoria, disorientamento e stati confusionali.”



“E per oggi è tutto da Radio Therapy, non dimenticate di sintonizzare ancora il vostro cervello sulle nostre frequenze dopo il week end! A lunedì allora, e, ricordate il motto: sempre viva la noradrenalina!!!”








Torino. Dopo la quattordicesima seduta di radioterapia.



Lunedì (agosto 2016). Siamo alla seconda metà di queste sei settimane. Venerdì scorso ho avuto l’ennesima crisi epilettica. La quarta della “nuova” serie (cioè quelle dopo le due iniziali), sempre con convulsioni e senza perdita di coscienza. Caso vuole che queste crisi siano sempre più o meno alla stessa ora, le 16/16.30. E sempre quando mi metto in testa di studiare un po’ il contrabbasso. Sarà un caso? Sarà l’anima di Bottesini o di Dragonetti che mi manda queste scariche in modo che non inizi nemmeno? Non so dovrò investigare… Sabato poi, dopo che avevo finito di aggiornare il diario mi sono messo le mani nei capelli e ho ritrovato le dita piene di, appunto, capelli. Ho provato di nuovo e l’effetto è stato lo stesso. Tanto che ho cominciato a capire. Stavo perdendoli. Di colpo, così, come le crisi epilettiche, ti sorprendono e non lasciano scampo. Così ho cominciato a perdere i capelli. E se per me è stato traumatico, non voglio nemmeno immaginarmi per una donna cosa voglia dire alzarsi una mattina, mettersi le mani tra i capelli e ritrovarsi come una gatta che perde i peli, con l’unica differenza che la gatta ne ha altri sotto mentre a noi resta un buco. Ho optato subito per la “pelata” totale. Sono andato da mia cognata che me li ha tagliati con la macchinetta del marito. Mi sono lasciato la barba però, come un vero hipster che per non mostrare le calvizie o la stempiatura da quarantenne che vuole fare il giovane si taglia tutto e decide improvvisamente di seguire la moda, e allora te lo vedi con quei ridicoli pantaloni col risvoltino, le bretelle (che quando le portavo io ero uno “sfigato” mentre ora che vanno di moda se non le porti lo sei) e camice abbottonate fino al collo. Ah dimenticavo gli occhiali, che anche se non ne hai bisogno devi farteli fare, magari con dei semplici vetri sopra, se no non sei cool. Ma vaffan-cool.







(solo uno dei tre ha un cancro... quale?)














(Trova le differenze!)



Dopo questa parentesi, torniamo al discorso iniziale: la prima metà di radioterapia più chemioterapia. Siamo alla quattordicesima seduta, ho preso il temozolomide (la chemio) 21 volte (perché a differenza delle radioterapie lo si prende anche il sabato e la domenica). Comincio a risentirne fisicamente, soprattutto il venerdì e il sabato, con l’effetto “accumulo” sono più stanco, dormirei tutto il giorno, la gamba è meno “collaborante” e così anche la parola. Devo stare attento a quello che mangio, per non avere nausee mangio sempre più controllato, evito il latte e i suoi derivati (LSD…) e bevo, la mattina, latte d’avena. Che non è veramente latte, ma un drink fatto con acqua, farina d’avena, e altri ingredienti che lo fanno somigliare, anche se solo lontanamente, al latte. Sono passato a dei cereali integrali, ho eliminato il caffè, ma sono rimasto ad un numero indefinibile di biscotti, poiché nel frattempo mi hanno, per via delle crisi epilettiche, raddoppiato la dose di cortisone, perciò ho una fame ancora maggiore di quella che avrei solitamente essendo un “suonatore” (nell’albese si usa dire quando uno ha tanta fame che ha una fame da suonatore). Questa dose doppia di cortisone dovrebbe servire a ridurre l'infiammazione delle zone interessate dalla radioterapia e provare così a porre freno a questa angosciosa routine di una crisi quasi settimanale.



Quindi, tutto sommato, ho fatto il giro di boa nel migliore dei modi possibili, o per lo meno nel migliore dei modi che ci eravamo immaginati. Sono contento. Stanco ma contento.





(N.B. Ricordo che ogni tumore è a sé, questa è la mia esperienza, non può e non deve essere presa come una sorta di "manuale per sopravvivere ad un tumore al cervello", questa è la MIA storia, se volete leggerla mi fa piacere. Le parole sono di più o meno un anno fa, nel frattempo non sono mancati momenti di sconforto, depressione, malesseri fisici o psicologici, non è tutto rose e fiori anche se sei sempre col sorriso magari dentro nascondi un tarlo che ti rode e prima o poi esce... ma questo è un altro capitolo... andiamo con ordine!)







da LE DITA DEI PIEDI



“[…] Ma che diavolo succede?

Che razza di dita sono queste

che non gliene frega più niente di niente?

Ma sono ancora le mie

dita? Si sono forse scordate

i vecchi tempi, che cosa voleva dire

esser vive allora? Sempre in prima

fila, sempre le prime a scendere sulla pista da ballo

appena attaccava la musica.”



(Raymond Carver, trad. di Riccardo Duranti)





Le dita dei piedi.



13 agosto 2016. Stanotte, dopo un durissimo allenamento, mi si sono riattivate le dita del piede. Ora: vale la pena spendere qualche riga su come avviene questa riattivazione. O per lo meno cosa ci ho capito io. Le mappe premotorie fungono da attivatori di movimento. In pratica sono il motorino d’avviamento dell’auto, il motore che potenzialmente lavorerebbe anche senza il motorino d’avviamento si mette in moto solo dopo che questo ha dato il via ai lavori. Ora a me questo motorino d’avviamento è stato tolto, per levare parte del tumore. La plasticità del cervello però è talmente grande che sta cercando di trovare un’altra strada per attivare quei muscoli che sono stati privati del “motorino d’avviamento”, altre sinapsi tra i neuroni che possano dare il segnale e comandare i gesti di tutti i giorni. Se la sensibilità al ditone del piede destro (per esempio) mi era del tutto invariata da prima, vederlo e sentirlo ma non riuscire a muoverlo mi faceva incazzare non poco. Allora ho rispolverato quel poco che avevo studiato per l’esame di fisiologia dell’attività psichica (o come diavolo si chiamava…) e mi ricordavo che le mappe mentali si possono allenare anche solo “pensando” al movimento. Ho chiesto poi conferma al mio fisioterapista e anche al mio amico Gabriele, che fa il preparatore atletico ed è sempre aggiornato. È vero. Allora ho cominciato, un muscolo alla volta, ho rimappato pian piano i vari “motorini d’avviamento” trovando nuove vie. E stanotte, le dita dei piedi hanno ripreso a muoversi. Dapprima è un movimento blando, quasi impercettibile, ma faticoso. Poi, preso dall’entusiasmo, dalla felicità, mi sono messo a ridere e ho dimenticato subito come avevo fatto. Cavolo ogni volta la stessa storia. Devo ricominciare, ricordarmi di come avevo fatto (possono volerci giorni…) è più difficile di quanto si possa credere, ma poi riesco. Lo alleno, proprio come un bambino quando esplora il proprio corpo e si guarda le dita della mano muoversi. E così, reimparo il gesto volontario. Sì: volontario perché quello involontario, ad esempio nella ricerca di equilibrio, nella camminata, l’avevo riacquistato già da tempo grazie a Daniele. Era il volontario a mancarmi. Un’altra immagine che mi viene in mente per descrivere questa cosa è quella di un bosco dove sono spariti i sentieri. Un bosco tornato selvaggio tutto d’un tratto. Dove vanno segnati ed esplorate nuove vie, che conducano agli obbiettivi (una fontana, una baita, un ruscello) e dapprima tenti a caso, esplorando delle tracce, poi quando impari la strada la fai più volte e la batti, la allarghi, ne fai poi una strada di terra battuta, la asfalti, la rendi così solida da poterla dimenticare perché consolidata dal tempo. Non è detto che quando sia solo un sentiero poi non possa salire la nebbia, e lasciare che la natura lo nasconda ancora e tu debba riprendere la ricerca un’altra volta. Questo è quello che è accaduto ad esempio con la regressione dovuta alle radioterapie, avevo scoperto il sentiero per le dita dei piedi, ma non era così tracciato ancora, che l’infiammazione ai tessuti attorno al tumore, dovuta proprio alle radioterapie, ne ha fatto alzare la “nebbia”, e ho perso quel sentiero. Assurdo no? Il cervello… Che macchina complessa e affascinante...




MERDA








"Omè, maestro, che è quel ch’i’ veggio?",
diss’io, "deh, sanza scorta andianci soli,
se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio.

Se tu se’ sì accorto come suoli,
non vedi tu ch’e’ digrignan li denti
e con le ciglia ne minaccian duoli?".

Ed elli a me: "Non vo’ che tu paventi;
lasciali digrignar pur a lor senno,
ch’e’ fanno ciò per li lessi dolenti".

Per l’argine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno;

ed elli avea del cul fatto trombetta.



(Dante Alighieri, “Divina Commedia”, inferno, canto XXI, par.127-139)





Diarrea.



Da lunedì 22 agosto (2016) ho la diarrea. Durata: 5 giorni. Livello di liquidità: acuto. Numero scariche: più o meno 10 alla notte, più o meno altrettante di giorno, con un po’ di tregua la mattina e la sera. Con la paura di una disidratazione bevo molto più del solito con l’effetto di riempirmi d’acqua la pancia (sembro letteralmente un pallone), e con la paura che ogni emissione d’aria abbia poi la “sorpresa” o sia “aria pesante” trattengo, aumentando l’effetto “mongolfiera”. C'è anche da dire che essendo il bagno al piano superiore trattengo molto di più di quanto farei... non dimenticate che con una gamba non sono, scusate il gioco di parole, in gamba. Mangio carote e patate bollite da lunedì, con del riso integrale, oppure del nasello o dello sgombro. La mattina del thè con 4 fette biscottate e una banana. Mancano solo due settimane di terapie, devo tenere duro, fino ad adesso è andato tutto bene, a parte un’altra crisi epilettica, alla quale abbiamo risposto con un raddoppio della dose di cortisone per disinfiammare la zona del cervello che le provoca. Non ho nausee o vomito. Bene. Dopo averne parlato con la dottoressa e provato con l’Imodium (effetto mongolfiera: acutissimo) mi prescrive, venerdì, un antibiotico. È finita. Mi sta dando tregua da stanotte ad ora che sono le 12.36. Stanotte ho sognato di essere un dromedario con la gobba sul davanti a passeggio per un’oasi nel deserto. Sono molto debilitato, stanco, zoppico molto di più di quando sono uscito da Rodello, fatico a parlare, e in pratica ho avuto una grande regressione.





("...semo in una botte de fero!" cit. A.Regolo)



La settimana dopo, l'ultima di “Radio Therapy”, va decisamente meglio. A parte la stanchezza da accumulo non ho più problemi intestinali, vado di corpo regolarmente, passo le giornate sul divano a dormicchiare, e arrivo a venerdì 2 settembre, data della fine del ciclo iniziato il 20 luglio, senza particolari altri inconvenienti se non la debolezza fisica e il ritmo sonno veglia completamente sfasato. Decidiamo di fermarci a Torino ancora una notte, nel frattempo riceviamo la gradita visita di Simone, un amico di Giulia che aveva conosciuto nell'anno che aveva passato a Bratislava. Poi sabato, finalmente, dopo aver radunato le cose accumulate in sei settimane di permanenza torinese, partiamo felici per Alba, col sorriso sulle labbra e un po' di stanchezza. Siamo felici ma tanto stanchi tutti e due. Abbiamo da scaricare la tensione di quattro mesi tra ospedali, cure, visite, e abbiamo finalmente davanti a noi un mese intero di vacanza. Fino al 29 settembre, data della risonanza infatti non ci saranno impegni, e non vediamo l'ora di progettare queste vacanze. Unico rammarico: finire questo capitolo del racconto con una storia che parla, sotto sotto, di merda.




Opportunità sto c***o!!!



Nel mese di settembre siamo stati a Cervia. Tagliata di Cervia per l’esattezza. Dove ho avuto un sonno incredibile… Ero sempre stanco e dormivo e pisciavo continuamente. Prima di partire era un continuo pisciare, entravo nei bar e chiedevo dove fossero i servizi, mi fermavo a pisciare per strada, facevo fermare le macchine su cui salivo per pisciare nelle piazzuole di sosta, mi alzavo decine di volte durante la notte, addirittura ho pisciato su di un muro in un viale pedonale mentre mio fratello mi guardava vergognandosi per me… altrimenti l’alternativa era pisciarsi addosso… insomma la prima analisi che mi fecero avevo 320 di glicemia!!! Calcolate che un valore normale è tra 65 e 100… insomma ero prossimo al coma diabetico! Per forza con tutto il cortisone che ho preso… ero aumentato di 12 Kg… e quindi alé altre medicine da prendere!!!

Faccio una prima risonanza a ottobre, dove ci ero andato un po’ scioccamente pronto a sentirmi dire “signor Prando, lei è guarito!!!”, invece no, ancora oggi ad un anno di distanza da questo racconto non lo sono, e forse non lo sarò mai, visto che tutti i dottori che vedo continuano a dirsi soddisfatti del fatto che il residuo stia lì buono e stabile… ma CAZZO io voglio guarire, non dirmi malato cronico di niente, ero uno che non aveva mai visto un medico in vita sua, non mi abituerò mai a dirmi “malato cronico”, e questo perché non ci si rassegna ad un anno e quattro mesi dalla scoperta di un tumore cerebrale, non ci si rassegna ad andare in ospedale a fare infusioni di bevacizumab ogni due settimane, “finché dura”, “fino a quando si ha una risposta positiva”, no! No! E poi no!, cazzo, voglio guarire… tornare ad essere quello che ero prima magari no, sarebbe impossibile, dopo una trauma di questo tipo non puoi tornare ad essere quello di prima, saresti un coglione, un imbecille, un patetico ignorante, se non capissi che ti è stata data un’opportunità di crescita impossibile per tutti gli altri “non malati” saresti un pirla, se non cambiassi l’ordine delle priorità... etc. etc… voglio soltanto un’altra opportunità… una sola…

Dopo tutta questa esaltazione vediamo le cose come stanno: ho un residuo importante di tumore che non è stato possibile eliminare chirurgicamente senza compromettere la mia qualità di vita. Ora si agirà in altra maniera per renderlo “non vivo/non morto”, in pratica uno zombie, un alien dormiente pronto a svegliarsi quando meno te lo aspetti, se non ci si riesce con le cure chemioterapiche si vedrà che cosa proporranno i dottori… io non ne voglio sapere niente!

Dopo un mese a rilassarci iniziano le cure chemioterapiche. La molecola è la stessa di quando facevo la radioterapia, ovvero il temozolomide. La quantità decisamente diversa, arriva quasi al quadruplo, da prendersi la prima settimana di ogni mese, per via orale. Si può ben dire che la tolleranza del mio fisico è buona, a parte il sapore metallico che rimane in bocca e che alla fine di ogni ciclo ho un po’ di caghetta (diarrea…).

Una seconda risonanza magnetica a dicembre, una terza a fine febbraio. Nel frattempo ho avuto una diecina di crisi epilettiche. Mi aggiungono un altro antiepilettico. Ora ad un mese di distanza non ho ancora avuto altre crisi. Speriamo…

“Allora dottoressa, belle notizie?”… “ni”. Come “ni”? allora la seconda risonanza mette in luce una crescita del residuo, che può essere un fattore prognostico positivo, nel caso la radioterapia abbia “fatto fuori i cattivi”, si tratterebbe allora di una pseudo-progressione (Giulia mi spiega che quando le cellule muoiono aumentano di volume), ma lo potremo sapere solo alla prossima risonanza. Tra due mesi. Intanto continuiamo con questa terapia.

Due mesi con questa spada di Damocle sulla testa a penzoloni…

“Allora dottoressa, belle notizie?”… Imbarazzata risponde “no”. Il residuo invece di fermarsi nella sua crescita sta nutrendosi ancora. È necessario cambiare terapia. La molecola che prenderò ora, dal lunedì dopo, si chiama Bevacizumab, che a me ricorda il nome di un imperatore maya o azteco. Incazzatissimo. Un guerriero di quelli che sacrificavano la gente al Dio Sole tagliandogli la testa giù dalle loro piramidi.

È necessario infilare un tubicino (picc) dal braccio a sotto il costato per la terapia, che si farà ogni 15 giorni. Gli effetti collaterali sono praticamente assenti, anche se io ogni 4/5 giorni dopo essermi sottoposto a questa terapia ho diarrea. Fra dieci giorni ho l’ennesima risonanza magnetica. Ho molta paura, devo dire la verità, quando ho cominciato questo diario ero fiducioso, ora che è passato quasi un anno e i segnali di miglioria sono talmente pochi e dilatati nel tempo (si, un concerto a Ferrara, convinto da Daniele, che non mi ha mai mollato nel frattempo, e che mi farà da primo con un’orchestra dove tutti sanno quello che sto passando e che mi stanno molto vicini, ma una buona metà delle note le farà da solo lui, e un disco a fine mese, giusto giusto ad un anno dalla prima crisi, con amici che non mi hanno mai mollato da quando è iniziato tutto), ho paura. Sono spaventato da quello che potrebbero dirmi dopo questa ennesima risonanza. Fuori dò l’impressione di essere un guerriero, sempre col sorriso sul volto. Dentro invece ho molta paura. Non potrei sentirmi dire un altro “no” alla mia domanda “allora dottoressa, belle notizie?”… Passo i giorni a letto, come a voler spegnere il mondo attorno a me, sono depresso, sono tornato in cura dalla psico-oncologa. Nonostante abbia una rete di amici che non mi mollano e una moglie che mi capisce, la situazione resta la stessa. I miei amici, tranne pochi, non mi possono capire fino in fondo, a meno che non siano stati malati anche loro di qualcosa di grave. Oggi al primo aprile 2017, quando scrivo, sono depresso. Anzi SONO DEPRESSO, lo voglio urlare. Perché proprio a me, nessuno meriterebbe questo, una pausa di un anno dalla vita. Magari di più. E si fa presto a dire “un’opportunità di crescita”, pure io son passato da questa minchiata di opportunità di crescita, no è una sfiga maledetta che nessuno meriterebbe. Cominciava ad ingranare e sul più bello “TAC! tutti a terra, si è fermato il motore!!!”. Nemmeno Giulia se lo meritava. Men che meno Lei. E i miei, mio fratello, i miei suoceri… NESSUNO! 4-5 mesi si che è un’opportunità di crescita. Ma quando comincia ad essere un anno ne hai piene le tasche di opportunità di crescita, sono solo fastidi, e la gamba che non risponde come vuoi, e il braccio che trema appena prendi in mano un arco, e non poter guidare… etc etc… direi un’opportunità di rottura di palle più che altro! Non pensi nemmeno più che ti è andata bene, che nel male... etc. etc... sono solo rotture di palle a non finire!!!!!!







Ieri.

Arriviamo in ospedale tesi e pieni d'ansia. C'era con me Giulia.

Si proprio ieri, il 3 ottobre 2017. Sono finalmente arrivato al presente. Tra un giorno è il mio compleanno, il 5 ottobre di 33 anni fa nascevo. E non ci poteva essere regalo più bello di quel che vi sto per raccontare.

Dopo la risonanza del 27 giugno ho fatto una risonanza il 27 settembre con la visita per confrontare queste due risonanze il 3 ottobre, appunto ieri.

Appena arriviamo in ospedale ci sentiamo dire dalla dottoressa che mi segue: "Prando... una bellissima risonanza!!! Il residuo prende meno il liquido di contrasto, in parole povere la terapia funziona, e il residuo non mangia più! continuiamo così che va bene! Il suo fisico risponde bene alla terapia, e questo è un buonissimo segnale". Aveva un sorriso radioso. E noi ci siamo messi a piangere. Ci siamo stretti forte la mano...

Lo sto prendendo per fame il bastardo! Lo stiamo mettendo sotto assedio! Finalmente LUCE!

Ora vi mostro le due risonanze anche a voi, così capirete meglio cosa dico:

(e potrete apprezzare la mia abilità nel disegno, sembrano le tavole anatomiche di Leonardo...)




(risonanza di giugno, il residuo è molto più vascolarizzato. Il mezzo di contrasto infatti indica la vascolarizzazione, i vasi sanguinei, che portano "cibo" al residuo. Non il residuo in sé, ma la sua vascolarizzazione. In questa RM di due mesi prima si può notare come il residuo sia più vascolarizzato)




(risonanza di settembre, il residuo risulta molto meno vascolarizzato, non solo stabile come aveva messo in luce la risonanza di giugno, ma con molti meno vasi sanguinei. Quindi questo vuol dire che sto rispondendo bene alla terapia in corso. Che ricordo è il BEVACIZUMAB).





Questo è un sollievo. Che voglio condividere con tutti voi. Ma io voglio anche pian pianino riappropriarmi della mia vita privata. Non sono un esibizionista. Volevo solo, appunto, condividere con chi sta affrontando una malattia, e con i miei amici, nuovi e vecchi, uno dei tanti modi con cui la si può affrontare. Non sto dicendo il migliore, ma il Mio. A me ha fatto bene scrivere questo blog, alcuni amici mi hanno detto che ha fatto bene anche a loro, che li ha incoraggiati a vedere le cose da un altro punto di vista, alcuni addirittura mi hanno chiesto di stampare un libro (se trovassi un editore disposto a stamparlo lo farei più che volentieri...), agli amici più lontani geograficamente scrivere ha aiutato a vedermi vicino e seguire la mia malattia, altri lo hanno consigliato a persone che si lamentano per un nonnulla, come se io fossi un punto di riferimento. Ma io non voglio essere preso come un punto di riferimento, un saggio, un maestro, non ho fatto niente di speciale, sto sopravvivendo ad una malattia terribile, e lo sto facendo a mio modo. Ne avrei fatto volentieri a meno. Ma mi è successo. E mi ha fatto crescere, ora vedo le cose diversamente. Ma non voglio insegnare niente a nessuno. Ed è per questo che oggi, un giorno prima dei miei 33 anni, voglio pubblicare l'ultima pagina del mio blog. Diventerebbe patetico ed esibizionistico fare altrimenti. E io non lo voglio. Che le cose vadano avanti bene o peggiorino non voglio che lo sappiano se non gli amici più stretti e i miei famigliari perché è così che devono andare le cose. 

Quindi, fatemi gli auguri di compleanno, mentre scrivo la parola FINE a questo blog.







FINE

Simone Prando
4/10/2017



Un dono!

Solo perché uno ha un cancro non è che abbia sempre ragione. Cioè se Salvini avesse un cancro sarebbe pur sempre Salvini. Se Hitler avesse a...